Frank Burke, esperto felliniano, professore emerito alla Queen’s University in Canada, ha messo insieme per il Centenario di Fellini un librone mastodontico in cui chiama a raccolta tutti i migliori studiosi del Maestro, in lingua inglese, oltre una piccola coorte di italiani di complemento. Si intitola A COMPANION TO FEDERICO FELLINI, che il mio amico Bob Balchus, sceneggiatore losangelino, tradurrebbe brillantemente in “Un cicerone per Federico Fellini”.
Il saggio di Burke “Fellini Remixed”, si prefigge principalmente di introdurci all’argomento chiave del volume, portandoci a scoprire quanto e come il cinema e la televisione anglo-americana abbiano assimilato lo spirito del nostro più grande artista del Novecento, e non soltanto cinematografico.
L’autore inizia sottolineando l’opportunità che il Centenario della nascita di Fellini, nel 2020, ci offre di riconsiderare l’influenza del regista italiano nella cultura audiovisiva Anglo-Americana; e per iniziare menziona la persistente attualità del ‘brand’ Fellini – il suo nome o i titoli dei suoi film – nella vita di ogni giorno: bar, ristoranti, moda, abbigliamento e altri generi di comune consumo (Rebecca Bauman si occupa esplicitamente di questo argomento nel volume); subito dopo elevando il livello del discorso alla miriade di ‘appropriazioni felliniane’ rintracciabili nel mondo cinetelevisivo di lingua anglosassone; a dimostrazione della costante presenza culturale dell’artista sancita dallo stesso termine Felliniesque, un attributo che racchiude in sé anche una certa concezione di italianità.
La diffusione di Fellini nella cultura anglosassone travalica i confini di ogni singolo saggio del volume, compreso il suo, confessa Burke, nel quale a malapena gli riuscirà di tratteggiare il fenomeno, così esteso da suggerire piuttosto una profonda ‘affinità di spirito’.
Il curatore allarga la sua indagine anche ad alcuni programmi televisivi fortemente improntati allo spirito felliniano, sebbene poco noti alla maggior parte di noi, e analizza in dettaglio i più significativi, dei quali riporto i nomi per completezza di informazione: Everybody Hurts negli anni ’90; French and Saunders (Franco e Sandro) sit-com parodistica en travesti; Northern Exposure; 3rd Rock from the Sun; e infine conclude: “Questi testi mettono in primo piano Fellini non soltanto come comune denominatore ma anche come l’ispiratore di significati profondamente culturali”.
Tra coloro che hanno citato o adottato Fellini nelle proprie opere, vengono indicati Jim McBride, fin dal 1967, con David Holzman’s Diary, e prosegue con All That Jazz di Bob Fosse; Stardust Memories di Woody Allen, Falling Down di Joel Schumacher, CQ di Roman Coppola, Big Fish di Tim Burton, I’m not there di Tod Haynes, Nine di Rob Marshall.
Per non parlare di Alex in Wonderland di Paul Mazursky, 8 ½ Women di Peter Greenaway e, come escluderlo!, Pulp Fiction di Quentin Tarantino, in cui la danza di John Travolta e Uma Thurman è notoriamente ricalcata sulla scena del nightclub alle Terme di Caracalla.
Se poi si vuol parlare di ascendente più generale, allora è doveroso citare Terry Gilliam, David Lynch e Charlie Kaufman, lo sceneggiatore di Being John Malkovich.
Né va trascurato un secondo film di Fellini, I Vitelloni, che ha lasciato un’impronta quasi equivalente a 8 ½. Ad esso, insiste Burke, bisogna ricondurre quasi la metà dei buoni film girati in America degli anni ’70, perché si impresse profondamente nella coscienza dei giovani cineasti di allora: Peter Bogdanovich con The last Picture Show, George Lucas con American Graffiti, Martin Scorsese con Mean Streets, Philip Kauffman con The Wanderers e Barry Levinson con Diner.
E la lista si allunga se ci riferiamo all’influenza ispirativa esercitata da Fellini, dice l’infaticabile curatore estraendo dal cilindro nomi altrettanto illustri: Vincente Minnelli, Bob Fosse, Robert Altman, Gene Wilder, Peter Yates; ancora Woody Allen di Celebrity, affiancato da Sophia Coppola di Lost in translation e persino da Christopher Nolan di Inception (tutti gli altri titoli in ballo li trovate facilmente nel librone). Poteva mancare Steven Spielberg? Un autore che non ha mai perso l’occasione di “esprimere grande rispetto per l’opera di Fellini”.
Non ancora stanco il nostro eccellente studioso annota: “Mentre Fellini stava diventando un oggetto di culto all’interno dell’immaginario cinematografico anglo-americano, la sua persona o meglio la sua ‘aura mistica’ iniziò a imporsi oltre l’ambito specifico dello schermo. I suoi film degli anni ’60, come Le tentazioni del dottor Antonio, La Dolce Vita, 8 ½ e Giulietta degli Spiriti diedero origine a un aggettivo, Felliniesque, i cui utilizzatori oltrepassavano di gran lunga il numero dei conoscitori dei suoi film. Benché senza dubbio l’aggettivo sia in primo luogo il risultato diretto delle sue pellicole. Fellini aveva radicalmente rivisitato il linguaggio cinematografico; l’impiego della macchina da presa, il montaggio, la messa in scena, conferivano al suo campo visivo una dinamicità sconosciuta e lasciavano libero gioco all’inaspettato e allo straordinario. Le sue storie erano sospinte da una potente energia onirica derivante dal suo inconscio e dall’inconscio dei personaggi, e i mondi che egli dipingeva erano copiosamente connotati da costumi e arredamenti che avrebbero influenzato l’intera industria della moda fino ai nostri giorni.”
Senza inoltrarsi nei cambiamenti di stile, incalza l’autore del saggio: almeno quattro adottati dal cineasta durante la sua carriera, una creatività imparagonabile ad alcun altro regista di tutta la storia del cinema.
“Bisogna aggiungere che il termine Felliniesque fu anche il risultato della musica di Nino Rota, la quale era organicamente collegata allo humor, al dinamismo e alla sofisticatezza dell’opera del Maestro, da Lo sceicco bianco a Prova d’orchestra.”
Almeno due dei titoli in causa tra i contributi del libro espandono i confini della creatività felliniana non soltanto a tutto il mondo, ma anche molto oltre, all’intera galassia, spiega lo studioso. E non si tratta di una iperbole. In un crescendo esaltante da spettacolo pirotecnico, Burke mette in campo il ‘botto’ finale appellandosi alla celebre rivista Playboy, nella fattispecie a una intervista pubblicata nel 1966 dal magazine americano per soli uomini, che contribuisce non poco alla mistica felliniana. La rivista, che rappresentava il baluardo dell’eterosessualità, per una liberazione, bisogna aggiungere, riferita soltanto al maschio, era solita appoggiarsi alla testimonianza dei grandi artisti e strizzava l’occhio alla rivoluzione sessuale degli anni ’60 ben rappresentata dagli ‘art movies’, i film d’autore europei.
Già dalla presentazione Playboy consolida l’immagine di Fellini come un pioniere. Burke riporta alcune delle frasi superlative utilizzate dall’articolista: “il proteiforme creatore di stupefacenti allegorie”, dotato di “una prodigiosa originalità filmica”, di “una inventiva fiammeggiante”; e ancora un “proteiforme poeta del cinema”, “irriducibilmente, inimitabilmente, eternamente sé stesso”. Nel gran finale, la rivista glamour e patinata estende i confini del regista italiano ben oltre il nostro mondo, anzi della nostra galassia, per dipingere Fellini definitivamente quale “un dio, creatore di tutte le cose”. E riferisce con toni messianici: “Sul set ogni minimo dettaglio è deciso da Fellini stesso e nessun altro. Il regista totale, creatore non soltanto di cielo e terra e tutte le creature in essi comprese, è anche il despota benevolente che dispone con assoluta autorità finale di ogni oggetto o persona, nel suo ruolo onnipotente di re del creato.”
Una sorta di esaltata divinizzazione, corroborata anche dalla convinzione che i film di Fellini nascessero spontaneamente dal nulla, frutto di una volontà ‘noumenica’, un gesto creativo che non aveva neppure bisogno di una sceneggiatura. Affermazione che l’intervistato si affretta naturalmente a smentire nel corso dell’intervista.
Non meno importante è l’immagine che la rivista delle “conigliette” presenta di Fellini come un autentico precursore in materia di sesso. E qui diventano cruciali le stesse parole dell’interessato, forse raccolte con allegra disinvoltura: “Il matrimonio è un istituto che necessita di un riesame. L’uomo moderno ha bisogno di relazioni più ricche. Non è un animale monogamo. Il matrimonio è una tirannia, una violazione dei suoi istinti naturali.”
In perfetta consonanza con la rivoluzione sessuale felliniana, osserva lo studioso, era la società del tempo, attraversata da istanze psicanalitiche sulla necessità dell’individuo di realizzare la propria personalità spontaneamente; quando invece essa “resta in ostaggio di bugie inutili, miti e fantasie che propongono una irraggiungibile moralità o santità di perfezione, istillate da un lavaggio del cervello durante la nostra infanzia disarmata”.
In sostanza, Fellini gran profeta di ogni libertà che opprime l’individuo umano. Una visione particolarmente congeniale a un’America in cui, a dispetto delle teorie marxiste e maoiste in voga all’epoca, l’individualismo rampante non aveva mai allentato la sua presa. E il cinema, che era il riflesso immediato della trasformazione in atto, salì in quegli anni al primo posto tra le arti, con un vasto consenso da parte della trasgressiva intellighenzia statunitense.
C’erano tutte le premesse, conclude Burke, perché Fellini tesaurizzasse un enorme capitale culturale, dall’una e dall’altra parte dell’oceano. Nel contesto americano, citare Fellini, rifarsi in qualsiasi modo alla sua poetica, al suo magistero, rappresentava la “elevation by associaton”, l’elevazione per associazione. Ed ecco che molti dei registi precedentemente nominati infilano nei propri film sequenze direttamente ispirate ai capolavori di Fellini. Esemplare il ‘traffic jam’, cioè l’incubo dell’ingorgo di traffico all’inizio di 8 ½, che Schumacher traferisce di sana pianta in Falling Down del 1993, anno della scomparsa di Federico.
Ci stupisce tutto questo? Non troppo, almeno per quanto riguarda i conoscitori del regista riminese. Certo sarebbe stato un bene che, in occasione del Centenario, questo appassionato ‘cicerone’ americano al servizio di Fellini, avesse potuto presentare il libro in Italia, a maggio, come era nelle previsioni. Per ora la sciagura del coronavirus ha impedito di fissare una data. Ma non disperiamo che questo sontuoso breviario di 537 pagine di testo, collezionate da una nobile processione di 58 valenti accademici, possa presto approdare a Roma per infiammare il dibattito, decisamente languente, sulla personalità del nostro maggior artista dello schermo. Frank Burke ha già la valigia al piede, molto fiero, e a ragione, della propria ciclopica impresa.