L’allontanamento del direttore di Repubblica, Carlo Verdelli, è l’ultimo atto di rottura nella storia di Repubblica. Un giornale nato nel ’76 per contrastare i poteri forti e acquistato dai poteri forti (Agnelli-Elkann). Scalfari, si risente per non essere stato avvertito. Un sussulto poco credibile, visto che fu proprio lui negli anni novanta a cedere quote sempre maggiori di proprietà a De Benedetti. Il timone rimase saldamente in mano al fondatore, finché c’era da resistere al nemico comune: Berlusconi. Finito il ventennio del Caimano, Repubblica ha preso una sonora sbandata per Renzi, tant’è che ho continuato a comprarlo per stima delle poche firme storiche di spessore e per le sue stupende pagine culturali.
Ora Molinari si presenta con un editoriale di modesto spessore, che – dopo non aver mai citato Verdelli – termina con uno sbrigativo invito a “realizzare e fare”. Il neodirettore appare un corpo estraneo nella storia di Repubblica, tant’è che la redazione ha immediatamente scioperato. E infatti la sua formazione si è svolta in giornali come Il Tempo di Letta, mentre in campo internazionale ha mostrato comprensione al governo di destra israeliano.
Repubblica smetterà di essere un giornale di riferimento per la sinistra progressista? Vedremo. Ma un Elkann che torna ai giornali dopo essere uscito dal Corriere della Sera “per concentrarsi sull’auto”, fa pensare al suo bisogno di coprirsi mediaticamente, in vista di una drastica riorganizzazione delle fabbriche di auto, per la contrazione del mercato. Quel che è certo è che la credibilità dell’indipendenza di un giornale si vede da chi lo finanzia. E – tranne rare eccezioni – la stampa nazionale in questo senso non gode di buona salute.
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