Le regole di condotta: il comportamento in pubblico tra impegno e partecipazione

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Quando si trova in presenza di altri, l’individuo è guidato da un sistema particolare di regole definite da Goffman proprietà situazionali. Queste regole controllano la “distribuzione del coinvolgimento dell’individuo nella situazione”, coinvolgimento espresso mediante un idioma convenzionale di segnali comportamentali.

Spesso l’individuo si adegua a queste regole senza riflettere, pagando ciò che ritiene essere “solo un piccolo tributo alle convenzioni”.  In realtà, sottolinea Goffman, la pena finale per chi rompe la regola è dura.

L’analisi condotta dal sociologo canadese riguarda la società occidentale, in special modo nordamericana della metà del secolo scorso. Una società che potrebbe sembrare molto lontana da quella attuale, dove si riempivano le prigioni con coloro che trasgredivano l’ordine legale e, parzialmente, i manicomi con quelli che agivano in maniera inappropriata.

I manicomi oggi non esistono più, o meglio le strutture che ancora esistono hanno cambiato nome. Le regole di comportamento in pubblico sembrano essere notevolmente cambiate. Ma ne siamo davvero certi? E se la risposta è si, siamo sicuri che ciò sia davvero un bene?

Le regole di condotta servono a definire quello che è e deve essere il comportamento in pubblico di ogni individuo. In passato ci si aspettava anche che da queste emergesse per facile e immediata deduzione l’appartenenza all’una o all’altra classe sociale. In caso contrario, persi i dovuti punti di riferimento, l’individuo veniva visto e percepito come estraneo, al raggruppamento, ovvero straniero.

Al giorno d’oggi ognuno sembra comportarsi in pubblico come meglio crede. Sembra non esistano più rigide regole di comportamento. Di sicuro il comportamento in pubblico non necessariamente agevola l’identificazione alla “classe” di appartenenza e i trasgressori dell’etichetta non vengono più, meramente per ciò, internati nei manicomi. Non con la frequenza di un tempo almeno.

Eppure, a ben guardare, coloro che si allontanano, per i più svariati motivi, da quelle che sono le regole, non scritte, del comportamento in pubblico anche oggi come in passato sono immediatamente individuati e percepiti come estranei, stranieri, diversi.

E anche oggi, esattamente come nel passato non così lontano indagato da Goffman, rompere la regola porta o può portare conseguenze dure.

Per esemplificare il concetto basta osservare le reazioni in pubblico alla presenza di un individuo estraneo al raggruppamento. Uno “straniero” per dirla in maniera semplice. Quest’ultimo veste in modo diverso, parla un’altra lingua, è avvezzo a muoversi diversamente… E, quand’anche si parli tanto di accoglienza e integrazione, la percezione della presenza estranea è tutt’ora avvertita, spesso osteggiata. Espressione palese del fatto che questo individuo non viene percepito come afferente al raggruppamento, che unisce gli individui non per sesso, età, legami di sangue o altro bensì per la condivisione delle medesime regole di comportamento in pubblico.

Si pensi ancora all’omofobia dilagante, al bullismo e cyberbullismo… ovvero a tutti quegli atteggiamenti di rifiuto e condanna verso gli individui che sono estranei e percepiti come diversi.

Le parole non cambiano la realtà, e la realtà è che oggi, proprio come in passato, c’è la tendenza  ad addossare responsabilità e colpe di problemi di varia natura legati alla società su coloro che non la rappresentano, agli occhi di chi invece se ne ritiene pienamente rappresentante.

I vinti di oggi, per usare l’espressione di Giovanni Verga, che affollano prigioni e centri e strutture di “accoglienza” di vario genere, sono l’equivalente dei vinti su cui ha indagato Erving Goffman che affollavano prigioni e manicomi.

Eppure oggi, esattamente come allora, il Male vero non deve per forza risiedere in questi individui ma può benissimo annidarsi in coloro che indossano alla perfezione la maschera dell’inclusione e conoscono e rispettano tutte le regole del raggruppamento, in pubblico. Già in pubblico. Perché anche Goffman, come già fece Pirandello, sottolinea la linea, a volta profondissima, che separa il comportamento in pubblico da quello non in pubblico, ma non la esplora limitando l’analisi alla condotta degli individui in presenza di altri.

Un’azione può essere ritenuta corretta o scorretta soltanto in rapporto al giudizio che ne dà un particolare gruppo sociale, mai in assoluto. Eccezion fatta ovviamente per i comportamenti criminali. E anche fra i gruppi più piccoli e più saldamente uniti è probabile esistano al riguardo dissensi e incertezze. Uno tra i migliori esempi forniti da Goffman è il comportamento, solo in apparenza diverso, di vari gruppi religiosi nei luoghi di culto. Alcuni infatti entrandovi mantengono le scarpe e tolgono il copricapo, altri fanno esattamente l’opposto, togliendo le scarpe e mantenendo il capo coperto. Gesti che solo in apparenza possono sembrare differenti ma che nascondono in realtà una somiglianza di fondo riscontrabile nella ragione che li ha originati, ovvero il senso di profondo rispetto nutrito verso quei luoghi per loro sacri.

Goffman analizza a fondo i modelli di comportamento che di certo non sono un qualcosa di statico. E Adriano Zamperini nel saggio introduttivo al testo sottolinea come, soprattutto a partire dalla seconda metà del Novecento, si è avuta un’involuzione del sistema ottocentesco delle buone maniere, “tale da corrompere l’etichetta con un vuoto formalismo”, trasformando l’interazione umana in “una commedia delle apparenze”, dove il fine non è certo rispettare l’altro ma piuttosto “farsi spazio, sedurre, promuovere se stessi come un brand”, in sostanza avere successo. È innegabile che il cosiddetto buon comportamento non sia più – anche se in effetti non lo è mai stato compiutamente – un orizzonte collettivamente condiviso.

In passato coloro che non rispettavano l’etichetta, le buone maniere e mostravano di non sapersi comportare in pubblico erano identificati spesso come dei criminali. Oggi, paradossalmente, siamo costretti a vedere persone che si ritengono e sono ritenute rispettabili che assumono movenze e linguaggi riconducibili ad ambienti criminali e giustificarsi adducendo la blanda motivazione dell’ilarità o dello scherno. Basti pensare al seguito non solo mediatico che hanno avuto produzioni cinematografiche come Il padrino o Gomorra. All’emulazione che ne è seguita in vari ambiti del vivere sociale: dagli slang alle movenze, dalle riproposizioni in chiave parodistica alle riproduzioni in maschera. In genere travisando quello che è, o dovrebbe essere, lo scopo divulgativo-educativo legato alla diffusione di informazioni sullo stile di vita e sui comportamenti tenuti dalla criminalità, organizzata o meno che sia.

Senza contare poi la confusione ingenerata, soprattutto negli individui in età adolescenziale, riguardo ciò che è giusto e ciò che non lo è. Tra i comportamenti corretti e quelli che lo sono meno. E questo non per ritornare a vecchi sistemi o ordini ormai desueti bensì per regolare la vita sociale e il rispetto degli individui che si incontrano in luoghi di interazione pubblici. Linee guida venute meno anche a causa dell’eccessiva urbanizzazione cui è andata incontro la società occidentale. Ricorda infatti Zamperini il concetto di overload, che sta a indicare il sovraccarico di stimoli cui è sottoposto quotidianamente l’abitante di un grande nucleo urbano.

Il sistema cognitivo individuale è incapace di elaborare gli innumerevoli input provenienti dall’ambiente urbano. Troppi e troppo incessanti per essere adeguatamente processati dalla mente umana. Per reggere questa moltitudine di sollecitazioni, il cittadino farebbe ricorso a tre modalità comportamentali: fissa ciò che ritiene prioritario, tendendo così a eludere il resto; alza barriere psicologiche protettive – come l’ampio ricorso agli smartphone per ascoltare musica con gli auricolari per isolarsi dal frastuono tipico dei luoghi pubblici; crea proprie regole e istituzioni.

In buona sostanza, il cittadino all’interno di metropoli dove può potenzialmente trovare di tutto ha la tendenza a smarrire se stesso.

Goffman con il saggio Il comportamento in pubblico ha cercato di dimostrare che la sintomatologia dei malati mentali può a volte avere a che fare più con la struttura dell’ordine pubblico che non con la natura del disordine mentale.

Oggi assistiamo a una profonda crisi che implica anche il comportamento in pubblico degli individui costretti a modificare ogni loro abitudine a causa del SARS-CoV-2 portatore della malattia Covid-19 e una delle frasi che si legge o si ascolta con maggiore frequenza è: quanto torneremo alla normalità?

E se fosse proprio questa normalità come noi la conosciamo a essere il vero problema di fondo?

Non sarebbe forse più opportuno cogliere l’occasione per ripensare le regole di condotta del nostro nuovo comportamento in pubblico?

Bibliografia di riferimento

Erving Goffman, Il comportamento in pubblico. L’interazione sociale nei luoghi di riunione, Einaudi, Torino, 2019.

Traduzione di Franca e Enrico Basaglia dal titolo originale Behavior in public places. Notes on the social organization of gatherings, The Free Press, a division of Simon&Schuster Inc., New York, 1963.

Versione con un saggio introduttivo di Adriano Zamperini.


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