Editori chiamati a cambiare il modello di lavoro ma contrari ad investire in un momento di crisi. Il ricambio all’interno delle redazioni ostacolato da contratti blindati. Comitati di redazione che tentano la difficile mediazione. E il “tutto free” che rende gli introiti dell’online ancora incerti
La difficoltà con la quale le testate italiane transitano nella nuova epoca digitale è il risultato di una serie di variabili che, messe a sistema, restituiscono il quadro di un cortocircuito. Il paradigma al quale la maggior parte degli editori sembra essersi allineata negli ultimi anni è “passare al digitale, ma senza investire”. I siti Internet dei giornali cartacei che le mattine riempiono gli scaffali delle edicole sono in realtà ancora surrogati degli stessi, prodotti da schiere di “aggregatori” di agenzie e materiale raccolto in giro per la Rete. La qualità subentra quasi sempre solo dal lavoro svolto per la carta, mentre le schiere di cui sopra sono composte da stagisti o collaboratori sottopagati.
Gli stessi ai quali un contratto ordinario è negato da un ricambio “redazional-generazionale” ingessato da anni; e così, mentre chi è dentro acquisisce scatti di anzianità rifiutandosi di approcciare il mondo della Rete (il pretesto è che il contratto non lo prevede) chi è fuori spende per scrivere più di quanto guadagna, e per quello che produce su Internet non vede il becco di un quattrino. Forse anche perché gli utenti che fruiscono di quei contenuti sono abituati a farlo gratis, e l’idea di dover pagare per leggere un giornale online li spingerebbe subito a mettere tra i preferiti la testata concorrente.
In tutto questo, il traffico che generano i siti supera ormai quello delle copie vendute e l’unica voce pubblicitaria con un “+” davanti è quella relativa al digitale. A fare da contraltare è l’istinto che contraddistingue i cda che amministrano i grandi gruppi editoriali: l’avidità in tempi di crisi. Insomma, si punta a cambiare un modello di produzione cercando, però, di risparmiare il più possibile, puntando tutto sul lavoro precario mentre si distribuiscono stipendi d’oro a chi non contribuirà mai al prodotto protagonista di un futuro talmente prossimo da essere il presente; di più, molti professionisti della carta stampata vedono la Rete come una minaccia al proprio lavoro (e alla propria posizione).
Ad un quadro già a tinte fosche si aggiunge un paradosso: editori che con una mano chiedono oboli ai motori di ricerca rei di lucrare indicizzando i propri contenuti, mentre con l’altra incassano proventi pubblicitari che crescono al crescere di numeri molto spesso frutto della stessa indicizzazione.
È dunque una matassa piuttosto intricata quella che sono ora chiamati a sciogliere, ognuno per la propria area di competenza, da un lato il legislatore (vedi l’equo compenso per i giornalisti) e dall’altra i comitati di redazione che sempre più spesso finiscono tra l’incudine e il martello. Il precario, intanto, attende e ringrazia per l’attenzione.