Nella tempesta troverai anche ciò che ti salva, recita un’antica formula di saggezza. La considerazione è ambigua perché sembra quasi auspicare il “cataclisma” ma un po’ di verità la contiene. Le emergenze ci fanno uscire dalla comoda ripetitività dei gesti quotidiani, ci costringono a pensare, forse persino a ripensarci. Per questo ha senso parlare ora, senza un filo di retorica, di antifascismo e soprattutto di liberazione.
Come molti amici di Articolo 21 sono uno che ha passato la vita “maneggiando” parole, come giornalista, autore di libri sull’informazione, conferenziere, docente. Intendiamoci: tutti formuliamo il nostro pensiero mettendo insieme parole, articolando discorsi prima dentro di noi e poi con altri. Chi però ha nel parlare/scrivere la cifra della propria identità umana e professionale qualche problema in più è inevitabilmente condotto a porselo. Dunque il mio ritrovarmi non può che incentrarsi sul senso delle parole, su una messa fuoco del linguaggio che stiamo usando in queste ultime drammatiche settimane.
A metà febbraio, con sconfortante tempismo rispetto all’esplosione italiana della pandemia, è uscito un libro che ho contribuito a scrivere. Si intitola “La Passione per la Verità”, è dedicato a informazione e cultura, centrato su una domanda: come possiamo noi cittadini difenderci dal falso e dalla emotività irrazionale che ha dominato negli ultimi anni la nostra sfera pubblica/comunicativa? La tesi fondamentale è che la verità (quella dei fatti, fondamentale per un cronista come per uno scienziato) rimane un essenziale punto di riferimento per una comunità che voglia ritrovarsi nella condivisioni di valori e non intorno alla figura di un capo. Questa verità non deve essere intesa però come un possesso, ma sempre come il frutto di una costante ricerca, di un duro lavoro. E’ figlia di una spinta profonda, appunto una passione, termine polisemantico in sé, perché contiene sia il patimento e la sofferenza che la motivazione a migliorarsi, la speranza, il forte interesse, il trasporto. Quello che volevamo dire è che la ricerca della verità richiede impegno e fatica. Altre semplificazioni e scorciatoie, per quanto seducenti, rappresentano invece pure illusioni.
Parto da qui perché questo discorso è uscito integralmente riconfermato dai tragici eventi di questa beffarda primavera 2020. Lo faccio anche per segnalare che molte delle contraddizioni del nostro modo di comunicare erano già evidenti prima che esplodesse l’epidemia del covid_19. Nel libro ad esempio è contenuta anche una circostanziata disanima dei limiti strutturali dei talk televisivi, teatrini dove personaggi che hanno come unico requisito la popolarità chiacchierano in modo salottiero su qualsiasi argomento come se sapessero tutto anche quando non sanno nulla. Non si è riprodotto questo schema anche per tutto il mese di marzo? Le trasmissioni che avete seguito vi hanno chiarito le idee o hanno aumentato la confusione?
Dicevo delle parole usate per descrivere l’eccezionalità di quanto ci è capitato. Molti hanno parlato di guerra al virus. Pur comprendendo le motivazioni di chi in buona fede intendeva così onorare le vittime o riferirsi alla esigenza di “mobilitare le coscienze” perché si accettassero isolamento e confinamento, la metafora bellica non mi ha convinto. In guerra si uccidono i nemici, qui si tratta di salvare delle vite, non si combatte per distruggere ma ci si impegna per curare. Poi ho letto quanto scritto da uno storico che faceva la più banale delle considerazioni. Se si trattasse di un conflitto armato i più attrezzati nel mondo – scriveva – sarebbero gli Stati Uniti che hanno una spesa per armamenti enorme che invece si sono trovati “disarmati” di fronte a questa emergenza. E qual è lo strumento che è mancato loro in questa sfida con una nuova malattia? Non hanno avuto un sistema sanitario attrezzato e all’altezza della emergenza. E qui il pensiero non può non andare anche a noi, ai tagli che sono stati effettuati in tutto l’Occidente alle strutture sanitarie, alla logica dominante di chi negli ultimi decenni ci ha spiegato che gli ospedali dovevano solo trasformarsi in aziende efficienti. Ma in cosa consiste l’efficienza? Che valore ha la vita umana? Investire nella sanità pubblica è un costo o una doverosa precauzione a sostegno della salute e della dignità di tutti?
Se proprio dobbiamo usare un’iperbole forse il termine più adatto per questa pandemia è catastrofe che sta per improvviso disastro, rivolgimento, ribaltamento. A uscire ribaltata è stata l’illusione che ci aveva accecato secondo cui la specie umana fosse ormai la totale dominatrice del pianeta. I Greci chiamavano questo atteggiamento hybris che potremmo tradurre con tracotanza. So che questo è un punto controverso, ma un’entità biologica come un virus , una particella infettiva parassitaria che ha come unico impulso il replicarsi, ci dice che , malgrado gli indiscussi progressi di scienza e tecnologie, non siamo né onnipotenti, né invincibili, siamo invece vulnerabili, fragili e mortali.
Cosa produrrà l’angoscia di queste lunghissime giornate? Che effetti avrà lo scorrere una lista sempre più lunga di vittime? Riscoprire la debolezza degli anziani ritrovatisi alla mercé degli eventi? Cosa lascerà la paura del contagio, di una malattia epidemica che rende l’altro da te minaccioso? Cosa accadrà alla nostra socialità? Perché non è la stessa cosa passare la quarantena in un ampio appartamento ( le vostre comode case..) o in una villa con giardino piuttosto che stipati in cinque in un bilocale.
Le risposte ognuno deve trovarle dentro di sé. Già da tempo mi sono ripromesso di non fare profezie. Nei talk sentite spesso conduttore che pongono agli ospiti domande di questo tipo: come andrà a finire? Come sarà la fase 2,3,4? Queste domande le trovo sbagliate in sé. Non conoscono il futuro i virologi figuriamoci se possono anticiparlo degli opinionisti qualsiasi. Sono quesiti sbagliati perché rappresentano una forma di riduzionismo, riducono la complessità a un pronostico, quasi si trattasse di una scommessa per l’esito di un evento sportivo. Quello che invece so è che nella parola crisi ( la attuale tempesta lo è) è etimologicamente contenuto il significato originario di scelta. Dovremo fare delle scelte, decidere una strada. Dalla “catastrofe” potremo uscire più atomizzati, incattiviti, pronti a cercare nemici sui quali scaricare rabbia e frustrazione, capri espiatori, e poi parallelamente magari uomini forti cui affidarsi. Oppure potrà nascere, dalla consapevolezza della fragilità, un nuovo senso di comunità, di solidarietà umana. Mi schiero totalmente a favore di questa seconda strada e non per generico umanitarismo, ma perché i più attrezzati fra gli epidemiologici ci avvertono che altri virus restano in agguato, non c’è purtroppo solo il Sars-Cov-2 (il nome cambia ma è sempre lui), la prossima volta dobbiamo farci trovare preparati, troppe persone stanno perdendo la vita per errori e sottovalutazioni.
Se così è, se questo è il dilemma, il bivio che ci troviamo davanti è ben definito. La prima strada è quella della svolta autoritaria para fascista, i pieni poteri alla Orban, la repressione del dissenso e della libertà di informazione, la persecuzione dello straniero, del diverso dell’ebreo di turno. L’altra possibilità è liberatoria, perseguire (seriamente) un progetto di crescita ecologica e solidaristica, un nuovo “internazionalismo” centrato sui diritti delle persone al posto della globalizzazione della finanza. Come chiamiamo tutto ciò? E’ presto per dirlo, di sicuro è un percorso antifascista in cui si ritroverebbero le speranze di quei giovani che resero libera l’Italia nell’Aprile del ’45..
Detto questo chiudo con un’ultima parola chiave, virale. Quante volte l’abbiamo usata come metafora positiva, per indicare il successo di un messaggio, di una canzone, di una moda? Non lo farò mai più. E spero che concordino con me anche tutti quelli che hanno avuto la pazienza di seguirmi in quanto qui scritto.