Bisogna aspettare un po’… Prima di reagire, anche quando è facile, ragionevole e persino richiesto, serve aspettare un po’ di giorni prima di parlare. Affrontare subito un tema che ha tenuto banco, spopolato, intasato chat e smartphone, in éra social, non è cosa. Le azioni professionali corrette, quando vengono male usate e distorte, chiedono una tirata di fiato e qualche momento di silenzio per essere dispiegate. Forse oggi abbiamo raccolto, tutti noi che lavoriamo da quasi 28 anni a un telegiornale che parla di scienza, proprio durante questo respiro, più attenzione sul lavoro di ogni giorno, su tanti piccoli racconti di ricerca; storie che – a volte e in passato – sono sembrate minime rispetto a “tutto quello che stava succedendo”. Ci siamo trovati, nel momento dello scatenamento del web, vicini, al nostro fianco colleghe e colleghi altrettanto appassionate a appassionati di Servizio Pubblico radiotelevisivo, la stessa azienda e la stessa calma ragionata che non ha parenti con chi scrive di rabbia o cerca di imbastire show leggeri su temi così cruciali, che preoccupano tutti. Va compreso anche il sentimento di quanti, odiatori più o meno professionali, hanno intravisto solo la paura in un momento chiuso nelle case e solo a quella hanno opposto una reazione istintiva, di pancia. Non vorrei però tornare troppo sul fatto che tanto ha coinvolto… solo per dire che il lavoro è quello di sempre, verificabile al punto da non necessitare di altra difesa che realtà, lealtà e dati. Mi preme una riflessione sull’effetto che produce la paura canalizzata nel web, lasciata sola nelle case più o meno accoglienti, diventate l’unica strada del mondo possibile da camminare.
Ho la fortuna di avere un padre ex partigiano, 94 anni tra qualche mese; ha vissuto limiti imposti alle libertà personali, coprifuoco e fughe per non finire contro un muro, io no. Però in quella sua casa di allora, una cascina dell’astigiano, senza gli strumenti preziosi e a volte dannati di oggi, a far compagnia alla fifa c’erano libri e parole con gli altri della famiglia, discussioni, compattezza e anche qualche lite, perché no? Letture, forse anche scritture, diari che sarebbero stati ripresi in mano dopo anni per ritrovare quel ricordo, come fosse un compagno con il quale s’era fatto solo un pezzo di strada brutta insieme, ma dopo anni, quando era tutto finito, avevi il piacere di ritrovare. La valanga delle parole, dei video rilanciati e delle (o dei?) “meme”, vignette ricavate da immagini prese e “arricchite” di frasi, passa veloce sotto altre valanghe e altri video, sensazioni, notizie vere insieme a quelle inventate e strumentalizzate. Quasi non avessimo abbastanza paura di un nemico che ci passa da parte a parte, quasi come avessimo il tempo di giocare a rimpiattino con la verità e con la realtà. Allora la mascherina, introvabile e strapagata, teniamola sul viso a protezione di quel nemico e facciamola scivolare solo giù, in condizioni di sicurezza, come fosse un cappello, in segno di rispetto, gratitudine, per lo sforzo e l’impegno di tutti quelli che lavorano per far vincere la partita agli altri. Restiamo in casa e torniamo a parlare, urlare rabbia, travisare notizie, vuole solo dire che ci ha preso alla gola un panico che non porta soluzioni, né pazienza, né umanità. Agitare complotti inesistenti serve solo a cercare un colpevole escludendo la nostra capacità di capire che quello che stiamo vivendo può succedere, naturalmente e prima o poi finirà. Corriamo il rischio possa renderci più forti.