Oggi si celebra la giornata mondiale del Teatro, istituita nel 1961 a Vienna nel corso del IX Congresso mondiale dell’Istituto Internazionale del Teatro, su proposta del drammaturgo finlandese Arvi Kivimaa. La prima di queste giornate fu celebrata il 27 marzo 1962 su iniziativa di Jean Cocteau.
27 marzo 2020, anno terribile, anno di epidemia e paura, i teatri sono chiusi. Chiusi come i cinema, come le sale da concerto, come ogni luogo pubblico, come le librerie. Serve prudenza, non ci si può riunire, nessun assembramento, nessuna socialità, nessuna condivisione.
Non era mai accaduto. Da quando il poeta greco Tespi se ne andava in giro con il suo carro a portare vicino al pubblico le sue tragedie, a quando nei municipia italici il popolo si divertiva con i mimi e i primi ludi scenici, il teatro in Occidente aveva sempre resistito.
Resistito ai divieti medievali, quando i teatranti venivano considerati dei peccatori perché vendevano la loro anima e condannati; si erano inventati i Misteri e le Sacre Rappresentazioni per garantire l’esistenza di una scena, o le pantomime nelle fiere di paese, con attori girovaghi che recitavano in grammelot.
Aveva resistito alle grandi epidemie di peste del XIV secolo, quando i teatranti riempivano la maschera di erbe aromatiche convinti di evitare il contagio e si spostavano con le loro carovane da un borgo all’altro. Aveva resistito ed era diventato rigoglioso in tutto il suo splendore nel Rinascimento dentro le corti dei palazzi dei Signori o nelle piazze facendo nascere la Commedia dell’Arte.
Persino Shakespeare, durante la peste, quando i teatri vennero banditi e alcuni anche bruciati, chiamava i suoi attori all’aperto per dare loro le parti appena scritte (ricordiamo che Re Lear fu scritto durante la quarantena).
Aveva trionfato mettendo insieme musica e poesia inventando il Recitar cantando prima, e il Melodramma poi, durante gli anni della Controriforma Cattolica.
Aveva perfino resistito alle guerre. In Italia il Risorgimento (Verdi ce lo insegna) si combatté anche a teatro. E poi con le due Guerre mondiali, quando le piccole compagnie venivano mandate al fronte per rallegrare l’animo dei soldati, tenere su il morale. E quando, sotto i bombardamenti, nei rifugi anti-aerei grandi attori come Eduardo e tutta la sua famiglia improvvisavano rapide scenette comiche per regalare un sorriso. Nel Dopoguerra, con la fame che accecava e costringeva i genitori a dire ai bambini di dormire a pancia sotto per non sentire i morsi allo stomaco, nelle strade, su palchetti improvvisati e lenzuola come tende, si sentiva cantare, magari la voce di Anna Magnani.
All’aperto o al chiuso di edifici sontuosi ed eleganti, in marmo o in legno, in grandi teatri nazionali o comunali, in piccole sale, magari ricavate in garage o in fabbriche dismesse, il Teatro ha accolto sempre il suo pubblico e regalato la sua catarsi.
Perché di Teatro abbiamo tutti bisogno, dell’inganno magico di quella finzione, delle luci, del sipario rosso, dell’odore del velluto delle poltrone e della canfora sulle pellicce delle signore.
Buio in sala si dice prima dell’inizio dello spettacolo.
Oggi è buio in teatro, buio nella mente.
Le compagnie si sono fermate, hanno interrotto le loro tournée, fermato le produzioni, interrotto le prove, sospeso i cartelloni con i loro abbonamenti. Gli spettatori hanno chiesto il rimborso; ne è nata una campagna social con la quale si sta cercando una forma di sensibilizzazione verso il pubblico: se i teatranti tutti (dal primo attore all’ultimo tecnico) non vi possono chiedere un aiuto, un contributo, almeno non chiedete il rimborso. Unico segno di solidarietà possibile.
I grandi teatri si stanno organizzando per trovare sistemi sostituitivi. Le piattaforme digitali, ora, nell’era del web, si sono riempite di spettacoli in streaming. Registrazioni e anche spettacoli in diretta, come l’esperimento che, per esempio, ha fatto il Teatro Biondo di Palermo con lo spettacolo dedicato a Frida Kahlo, un monologo con Pamela Villoresi. Molti enti lirici hanno messo a disposizione i loro archivi per far rivedere magnifici spettacoli. Questo per non lasciarci del tutto orfani, per dire che il teatro non si ferma e non spezzare il legame con il pubblico. Da apprezzare sicuramente questo grande sforzo e da esserne grati.
Però. Però Teatro vuol dire vedere, dal greco theaomai. La grande differenza tra il cinema e il teatro sta proprio lì, nell’esperienza dal vivo. Nel sentire il respiro degli attori – magari ascoltare una “stecca” di un cantante non “in forma” – nell’assorbire il loro sudore, sentire la vita vera che si recita su quel palco, immedesimarsi, condividere il sentimento, ridere o piangere insieme al mio vicino di poltrona. E aspettare l’intervallo per muoversi un po’ e incontrare l’amico col quale commentare e sorridere. Aspettare l’ultimo sipario per spellarsi le mani ad applaudire o anche, perché no?, fischiare.
La nostalgia è tanta, si fa sentire ogni giorno di più. Per questo, oggi, è importante, molto importante, celebrare la Giornata nazionale del Teatro. Perché il teatro non si addormenti e non sparisca, nemmeno la più piccola delle compagnie, nemmeno i dopolavoro o i filodrammatici, i dilettanti e i laboratori teatrali, le scuole di recitazione, deve addormentarsi e sparire.
La scuola, in grande difficoltà anch’essa, può mantenere viva l’attenzione sul teatro, proponendo ai ragazzi brani di repertorio e scene di autori drammatici.
Sarebbe quanto mai gradito se i grandi network televisivi ci proponessero in prima serata una intera opera teatrale, magari di quelle che sanno di nostalgia, magari con Macario o Rina Morelli o Gassman o Paolo Poli, o Eduardo, o…….
Perché anche così, con le luci spente, i sipari abbassati, le poltrone vuote, le serrande bloccate, celebrare la Giornata Nazionale del Teatro non è un ossimoro. Perché il teatro è un tempio, sacro come e più di una chiesa, con la sua liturgia e la sua preghiera, i sacerdoti e i fedeli.
E quando tutto questo sarà finito, affolleremo ancora i foyer e faremo la fila al botteghino, ci metteremo la pelliccia e la cravatta, ci daremo appuntamento al ristorante dopo lo spettacolo e torneremo a sorridere o a piangere in platea o nel loggione. Avremo la nostra catarsi.