di Stefano Fait
Ripropongo le riflessioni di un analista che la pensa come me in merito all’Unione Europea, all’europeismo ed alle gravissime carenze del movimento degli indignati.
Kenan Malik, “La politica senza democrazia, la democrazia senza politica”, Bergens Tidende, 9 novembre 2011
“È sorprendente, e non poco preoccupante, quanto velocemente l’affermazione che “tutti i politici sono inutili” si è trasformata nella pretesa che “i politici siano sostituiti da tecnocrati che sanno quel che fanno”, una richiesta che sentiamo sempre più frequentemente in risposta alla crisi della zona euro.
Dallo sconvolgimento nella zona euro al movimento “Occupy”, ci sono due crisi che plasmano il dibattito politico contemporaneo. La prima è, ovviamente, la crisi economica. La seconda crisi, forse più insidiosa, è quella che sta avviluppando la democrazia. È insidiosa perché il problema non è l’imposizione della tirannia o la formale rimozione del diritto di voto. Piuttosto, il rapporto tra cambiamento politico e processo democratico è diventato così teso che il significato stesso della democrazia e della politica ne è uscito distorto. La facilità con cui le persone stanno chiedendo la sostituzione dei politici con i tecnocrati come la maniera migliore di affrontare l’instabilità europea ne è un indicatore molto chiaro.
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Il dibattito sull’UE è un po’ come sarebbe stato il referendum greco che non è mai stato fatto: una scelta fra due alternative sgradevoli. Da un lato, vi è l’euroscetticismo di destra, l’ostilità al progetto europeo alimentata dal nazionalismo e la xenofobia…e dall’altro lato, c’è l’europeismo liberale, attraverso il quale si esprime, troppo spesso, il disprezzo per l’elettorato, una visione ambigua del processo democratico e l’insistenza sul punto che il futuro dell’Unione Europea non dovrebbe essere modellato mediante una procedura aperta, un pubblico dibattito, ma mediante trattative burocratiche. Ciò che manca in questo dibattito è lo spazio per un eurofilo democratico, per chi vuole sì abbattere le barriere nazionali, ma attraverso il sostegno popolare e l’estensione delle istituzioni democratiche, non la loro castrazione.
L’Unione europea oggi rappresenta il trionfo della politica democratica più manageriale. E in questo, è un progetto adatto a questi nostri tempi. La scomparsa, negli ultimi due decenni, delle divisioni ideologiche che hanno caratterizzato la politica negli ultimi duecento anni, ha fatto sì che la sfera politica si restringesse; così la politica è diventata sempre meno una questione di visioni antagonistiche della società e sempre più un dibattito su come gestire al meglio il sistema politico esistente.
Le persone hanno avvertito questo cambiamento nella forma di una crisi della rappresentanza politica, un crescente senso che la propria voce non trovava spazio e che le istituzioni politiche sono remote e corrotte. Il senso di essere stati politicamente abbandonati è stato più acuto all’interno della classe operaia tradizionale, i cui sentimenti di isolamento politico sono aumentati man mano che i partiti socialdemocratici hanno reciso i legami con i collegi elettorali della classe operaia. Questo senso di alienazione è stata una delle ragioni del successo dei movimenti reazionari e populisti in tutta Europa.
La recessione economica e l’imposizione di politiche di austerità hanno introdotto, però, sezioni molto più ampie della popolazione a questo sentimento di alienazione e di abbandono da parte delle istituzioni politiche.
Il movimento “occupy”, che nel giro di pochi mesi si è diffusa in un fenomeno globale, è un esempio lampante, guidato da un profondo senso di rabbia, sia di fronte all’ingiustizia del sistema finanziario, sia davanti al fallimento della politica nell’affrontare tale iniquità. Una delle caratteristiche del movimento è la mancanza di strutture formali, organizzazione, dirigenti o richieste. I suoi sostenitori celebrano questa mancanza come la grande forza del movimento, il suo rifiuto della politica tradizionale, la creazione di una nuova forma di democrazia. In realtà è la sua più grande debolezza. Una politica amorfa non è un’alternativa alla crisi della rappresentanza politica, ne è invece la conseguenza.
Senza la rabbia non ci può essere cambiamento politico. La rabbia per come è strutturata la società è necessariamente alla radice di tutte le richieste su come dovrebbe essere la società. La rabbia, però, può assumere molte forme politiche, reazionarie come anche progressiste. Il pericolo di un movimento che mobilita la rabbia popolare in assenza di coerenti scelte politiche e richieste è che la rabbia e il disincanto non sono incanalate in soluzioni progressiste. L’obiettivo del movimento Occupy è quello di creare una grande tenda, per rappresentare il 99%, in nome della democrazia. Ma la democrazia non richiede una grande tenda della politica, bensì, semmai, l’esatto contrario. Richiede la definizione di linee politiche, i conflitti politici, la realizzazione di scelte politiche. E la capacità di fare tutto ciò che definisce una democrazia, e la distingue dai sistemi non-democratici. Perché la democrazia funzioni, la politica, paradossalmente, non deve essere inclusiva.
La crisi della zona euro e il movimento Occupy rivelano i due lati dell’incapacità del nostro tempo di cogliere il significato della democrazia. In un caso, il cambiamento politico è ridotto a manipolazioni tecnocratiche, nell’altro la democrazia è equiparata alla mancanza di una struttura politica. Questa separazione della politica dalla democrazia ci deve preoccupare quanto la crisi economica”.