Valerio Verbano, con la sua storia, la sua tenacia e la sua tragia fine, può essere considerato senza dubbio il simbolo di un’epoca. Fu, infatti, protagonista di una stagione maledetta: gli Anni di piombo, gli anni delle stragi, la Strategia della tensione, i NAR, la violenza brigatista e le armi, tante, troppe, che terrorizzavano una Capitale ormai in stato d’assedio. Fu anche una delle ultime vittime di quel periodo tragico, prima del riflusso, della resa, della fine di un’epoca e dell’inizio di una fase storica non meno barbara e non certo da ricordare con affetto.
Venne assassinato, con ogni probabilità, da un nucleo di estremisti di destra che gli fecero pagare a carissimo prezzo la sua instancabile attività di documentzione e denuncia.
Valerio, classe 1961, avrebbe compiuto diciannove anni tre giorni dopo, il 25, quando venne atteso in casa da tre criminali che, fingendosi suoi amici, si fecero aprire la porta di casa dai genitori del ragazzo, li imbavagliarono e attesero che tornasse da scuola per sparargli.
Valerio lottava, prendeva informazioni, indagava sui rapporti fra la mala e l’estrema destra, ormai apertamente ostile dopo i fatti di Acca Larentia, all”antica idea almirantiana del partito legge e ordine, sempre schierato al fianco delle divise, e soprattutto temeva un colpo di Stato militare, un po’ come tutti i militanti dell’Autonomia, la più dura fra le varie sinistre extraparlamentari che erano sfuggite alle ferree regole del PCI per rifugiarsi in formazioni minoritarie e talvolta anche assassine, le quali avevano tuttavia il pregio di aver compreso prima e meglio di altri l’epoca in cui vivevano. Il PCI no: non capiva, non sapeva, non agiva di conseguenza e, dopo il delitto Moro, non aveva più neanche una strategia all’altezza, se non quella di un’impossibile alternativa di sinistra da costruire lusingando invano i socialisti e in spregio a una DC che aveva inseguito per quasi un decennio.
Valerio non acettava tutto questo. Non tollerava la stasi, non sopportava l’ipocrisia, era un combattente, un lottatore, un idealista, probabilmente, anzi sicuramente, un ingenuo ma anche un ragazzo coraggioso e desideroso di battersi per un avvenire migliore.
Cadde come caddero tanti altri suoi coetanei, prima e dopo, in una guerra non dichiarata ma non per questo meno cruenta, resa al contrario ancor più atroce dal fatto di non avere regole, di non concepire alcuna tregua, di non conoscere il concetto stesso di pietà.
Valerio Verbano, quarant’anni dopo. Ai più giovani questo nome probabilmente non dice nulla. A chi c’era ricorda giorni spiacevoli, lacrime amare, passioni tristi ed emozioni ai limiti delo strazio. A chi ha studiato attentamente quelle vicende dice che di quegli anni non bisogna, come detto, averne nostalgia ma comprenderli affinché non si ripetano. Fu una mattanza, un’orgia di sangue sfociata poi nell’abisso del nulla, nel vuoto, nel rifiuto della politica stessa, nella fuga dagli ideali e dalla battaglia, nel rifugio in un edonismo individualista e falsamente consolatorio che ci ha condotto dove siamo adesso.
Valerio, se fosse ancora qui, starebbe per compiere cinquantanove anni. Magari sarebbe arrivato in Parlamento, forse avrebbe continuato a battersi nell’ombra, chissà se avrebbe provato la disillusione di tanti altri suoi coetanei che, nei decenni successivi, hanno lasciato perdere o, peggio ancora, in molti casi, sono cambiati dal giorno alla notte. Lui ha avuto in sorte un’esistenza breve, brevissima, dannata. Una vita di lotta e di tormento, conclusasi nel quartiere di Monte Sacro, dove abitava insieme ai genitori, nel pomeriggio di un giorno di febbraio apparentemente come tanti. Un giorno che, invece, ha cambiato per sempre Roma e tutti noi. Un giorno da ricordare, al pari del desiderio di comunità e d’impegno di un ragazzo degli anni Settanta che oggi possiamo solo piangere.
P.S. Dedico questo articolo alla memoria del giudice Mario Amato, anche lui assassinato quarant’anni fa (23 giugno 1980) da estremisti di destra per aver tentato di far luce sulle connessioni fra mala, estrema destra e apparati collusi dello Stato e del mondo economico e finanziario. Venne fermato proprio come il collega Occorsio, di cui aveva ereditato il lavoro e l’ardimento. Un altro simbolo di quella stagione di sangue. Per non dimenticare.
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