Il Gruppo Prisa, editore del quotidiano El País, annuncia una drastica ristrutturazione, con la riduzione di un terzo dei suoi giornalisti, tramite licenziamenti, prepensionamenti e riduzioni salariali. Prisa ha aperto un Ere (Expediente de regulación de empleo, lo strumento della legislazione spagnola che regola le riduzioni del personale nelle aziende in crisi) particolarmente pesante. Circa 150 persone su 450, soprattutto nelle redazioni locali – già gli inserti di Galicia, Andalucía, Comunidad Valenciana e País Vasco erano stati ridotti nella foliazione – ma anche nelle redazioni di Madrid e Barcellona. Tutto il settore della carta stampata è coinvolto, con esuberi nel periodico economico Cinco días (20 giornalisti), nelle riviste del gruppo (circa 40) e in Prisa Brand Solutions, società che offre servizi evoluti di promozione per le imprese sulle testate del gruppo (circa 30 persone).
Le misure «irreversibili e dolorose», sono state annunciate da Juan Luis Cebrián, presidente esecutivo di Prisa e presidente de El País, nel corso di una riunione tenutasi venerdì 5, alla presenza di Javier Moreno (direttore del quotidiano), Fernando Abril-Martorell (consigliere delegato del gruppo), José Luis Sainz (consigliere delegato del quotidiano e di Prisa Radio) e della direttrice delle Risorse umane, Josefa Gutiérrez. Dopo la riunione le misure sono state comunicate ai caporedattori. «Non possiamo continuare a vivere tanto bene», ha detto Cebrián spiegando la necessità di ristrutturare il settore delle testate su carta per garantirne la sopravvivenza. «L’unica maniera di sopravvivere è avere strutture di costi che permettano di sostenere El País», ha aggiunto, indicando problemi come l’invecchiamento dei giornalisti, la carenza di professionalità e di «profilo digitale» e il loro alto costo, «Un salario medio di 88mila euro». Secondo Cebrián, la terza età nel giornalismo comincia a 50 anni e «Il tema più preoccupante è che l’età media di 53 anni. E questo influisce sui profili professionali e sul modello di giornale che vogliamo fare».
Le redazioni si sono riunite in assemblea. Il comitato di redazione (Comité de trabajadores de El País) ha informato che quando la proprietà avrebbe consegnato la lista dei nomi, sarebbe stata consegnata a un notaio senza essere letta. Niente nomi. La risposta testimonia del livello di tensione delle relazioni sindacali, in conseguenza alle precedenti ristrutturazioni nelle testate del gruppo.
Toccò radio Cadena Ser a giugno e allora uno sciopero compatto creò non pochi problemi. Questa volta Prisa vuole spezzare il fronte dei lavoratori, demotivando quelli che sanno che salveranno il posto. Un comportamento non certo improntato al fair play nelle relazioni coi lavoratori. Ma ancor più pesante è il comportamento dell’azienda e della direzione riguardo alle iniziative di protesta scelte dal Comité. L’assemblea ha indetto uno sciopero delle firme, per garantire l’informazione ai lettori e proseguire l’attività editoriale pur manifestando la loro protesta verso l’Ere. La reazione è stata pesantissima, secondo quanto riportano alcuni siti specializzati (a seguire la vicenda sono in particolare il giornale on-line El Plural e il blog Periodistas21). I capiservizio, per conto del direttore Javier Moreno e del direttore aggiunto Vicente Jiménez, hanno avvisato subito i collaboratori che chi si rifiuterà di firmare i propri pezzi non verrà più chiamato. Le minacce sono poi state rivolte ai giornalisti regolarmente assunti, ai quali è stato comunicato che l’omissione della firma costituiva una grave contravvenzione al Libro de estilo de El País, punibile col licenziamento. Il Libro de estilo rappresenta l’essenza dell’impegno giornalistico de El País, scritto per garantire i lettori dai possibile errori o distorsioni del lavoro giornalistico, contiene le norme di compimento obbligato per tutti i lavoratori del giornale, redattori e collaboratori. Effettivamente la firma sotto un articolo è una forma di garanzia per il lettore. Ma mette tristezza vedere come questo tema venga usato al servizio di un grave imbarbarimento dei rapporti sindacali.
Quanto accade a calle Miguel Yuste, la sede madrilena del quotidiano, non è solo una crisi aziendale né una circoscritta questione sindacale, per quanto grave, ma una vicenda che riguarda la pluralità dell’informazione in Spagna. El País, dal 1976, ha accompagnato il paese, dalla fine del franchismo e lungo quel percorso che è stato l’entrata nella modernità e nell’Europa. Le sue inchieste raccontarono la piaga dell’aborto clandestino e del turismo abortivo a cui erano costrette le donne spagnole, fu l’unico giornale a condannare il tentato colpo di Stato del 1981. E’ difficile spiegare cosa significa per tanti spagnoli, una colonna della cultura democratica nazionale ma anche una presenza quotidiana della propria storia famigliare. E’ stato «l’intellettuale collettivo», come l’ha definito il filosofo José Luis López Aranguren. Ha rappresentato, in un rapporto dialettico con la sinistra politica spagnola – quanto si inganna chi lo descrive come il giornale dei socialisti spagnoli – il mondo delle idee e gli interessi dei cittadini. E’ stato, certamente, anche un “giornale-partito”, non a caso modello, assieme a Le Monde al quale a sua volta si ispirava, de la Repubblica di Scalfari.
Il livello dello scontro e la qualità delle argomentazioni da parte della proprietà ha sconcertato e amareggiato i giornalisti. Come abbiamo potuto verificare sentendo alcuni colleghi, fa male il tono offensivo ma anche il voltafaccia ideologico, il fatto di aver usato gli strumenti legali, l’Ere, che la politica editoriale del giornale aveva duramente criticato quando proposti dal governo. E’ normale che i salariati di un’azienda in crisi tentino di ridimensionare il peso dei costi per il personale sulle sorti dell’azienda ma è indubbio che in un’impresa come Prisa, con 486 dirigenti attivi alla fine del 2011 e un CdA i cui soli costi retribuzione superano i 20 milioni di euro l’anno, i 105 milioni di spese per il personale della carta stampata di del gruppo non sono il problema principale. E anche che un gruppo che ha guadagnato 800 milioni negli ultimi dieci anni potrebbe certamente evitare la strage dei lavoratori alla prospettiva del primo anno in perdita dopo un trentennio di continua crescita.
Siamo davanti al crepuscolo di un gruppo leader dell’informazione e al modello d’impresa adottato nell’ultimo decennio. Ce lo dice anche il tono delle parole di Cebrián. Un dirigente che motiva una ristrutturazione con limiti professionali dei suoi impiegati, l’età e il costo non manifesta forza agomentativa. Del resto, Cebrián, che ha 68 anni e nel 2011 ha guadagnato complessivamente 13 milioni di euro, è stato il conduttore della nave che sta affondando.
Il gruppo viene da anni caratterizzati da successi (l’importante ruolo mondiale nella produzione di informazione in lingua spagnola, i successi nel digital media) alternati a fallimenti (l’avventura nella televisione in chiaro). Fallimenti il cui costo è stato sempre maggiore dei guadagni dei successi. Le leadership vengono da settori che fanno guadagnare poco, i nuovi media, mentre le perdite hanno dissanguato il gruppo. L’avventura di Cuatro, la televisione in chiaro, è emblematica. Enormi investimenti, con esclusive come i mondiali di calcio in chiaro e relativi record d’ascolto, ma mancanza di una strategia di medio periodo e consegente fuga quando il canale si ferma su basse medie di ascolto. L’intervento di Mediaset, la una fusione con Tele Cinco, che si prende le esclusive migliori, come House, e ora Cuatro è il secondo canale generalista in chiaro del gruppo Mediaset spagnolo.
La crisi, col crollo delle entrate pubblicitarie, ha colpito duramente la carta stampata, ma Prisa era molto più debole di come sembrava. Gli errori dei vertici dell’impresa, ancora in mano alla famiglia Polanco, hanno fatto sì che il gruppo dovesse mettersi nelle mani delle banche creditrici e del fondo statunitense Liberty. Il modello di impresa non è stato cambiato, in particolare nella stampa scritta dove le formule sono ingessate da anni. Di contro, artefici di ottimi risultati sono stati allontanati, come all’inizio di settembre è toccato a Gumersindo Lafuente, uno dei padri della crescita del sito e della convergenza tra stampa scritta e nuovi media, che quei cambiamenti chiedeva da tempo. La «questione democratica» insita nella crisi di Prisa sta nel fallimento di un progetto editoriale che ha consegnato il principale gruppo mediatico spagnolo a un fondo statunitense e alle banche. Il tutto in un paese in cui un governo, ostile al gruppo, non si pone neanche il problema dal punto di vista della salvaguardia dell’industria nazionale.
Qual è, in definitiva, la strategia dell’azienda.
Al momento è difficile capre qual sia la strategia dell’azienda per l’uscita dalla crisi né la filosofia editoriale complessiva. La nuova proprietà – che ha oramai preso il posto della famiglia Polanco – sta operando una ristrutturazione profonda della quale non sono chiari gli obiettivi. Se il modello è Cadena Ser, in quel caso al leader di mercato venne annacquata la linea editoriale, ridimensionata l’informazione a vantaggio dell’intrattenimento, in preparazione della messa sul mercato. El País sarà venduto?
Poi c’è il problema della linea editoriale, sulla quale da tempo ci sono tensioni. Il giornale è apparso eccessivamente pronto nel ributtare nella polvere Zapatero e il suo governo, dopo averlo sollevato agli altari, poi attendista col governo Rajoy, per recuperare quando l’indignazione ha riempito le piazze, puntando l’indice contro l’intero sistema dei partiti. Da tempo molti lettori abituali avvertono il giornale distanziarsi dalle loro sensibilità. Secondo Luis Sopena, direttore de El Plural, testata vicina al Psoe, in gioco c’è anche un riposizionamento ideologico del giornale che dovrebbe portare ad attenuare le critiche al sistema bancario, che detiene buona parte dei suoi debiti, e anche verso il governo Rajoy. In vista, addirittura, di una ricollocazione nell’ambito del centro destra, il cui territorio è però affollato e presidiato dal principale concorrente, El Mundo.
L’impressione, amara, è di trovarsi davanti al crepuscolo del principale gruppo editoriale spagnolo, nel pieno dello scontro per il controllo politico dell’azienda, con una nuova proprietà che si muove come un carro armato senza incontrare ostacoli sul cammino, in quello che è anche il raccnto del «disincontro» fra uomini che hanno vissuto da protagonisti e sodali la storia della democrazia e del giornalismo spagnoli.
A Cadena Ser, proprio per la contrarietà ai licenziamenti, era stato allontanato il consigliere delegato, Javier Pons, figura strica del gruppo, e levato ogni potere al presidente, Augusto Delkader, antico amico di Cebrián, accanto a lui dalla fondazione nel 1976, che si opponeva a ristrutturazione e vendita. Con El País è toccato a Joaquín Estefanía, direttore del giornale proprio dopo Cebrián, mettere in scena la rottura col suo amico di una vita. Durante una tesa riunione, riportata dal web, riferendosi alla ristrutturazione avrebbe detto che «deteriorerà la qualità del personale oltre a costituire per loro una lacerazione emotiva irreversibile». E sulle minacce di licenziamento per lo sciopero delle firme, guardando negli occhi Cebrián, avrebbe rotto definitivamente il sodalizio di una vita con queste parole: «Sono stato con te il 23 febbraio (data del tentato golpe, quando una parte della proprietà e della redazione volevano attendere gli eventi anziché uscire con una prima pagina di condanna), lo sono stato per lo sciopero delle firme del 2011 (quando i quattro direttori del giornale firmarono una lettera contro questa forma di protesta) ma su questo io non ci sto».
Qualcosa si muove, anche se a difendere i giornalisti non ci sono, come abbiamo visto, il direttore, Javier Moreno, né l’aggiunto, Vicente Jiménez. Non hanno invece taciuto alcuni commentatori storici del giornale, che sulle loro colonne hanno criticato il comportamento anti-sindacale in atto. Firme pesanti, come Elvira Lindo, Maruja Torres e il geniale vignettista Forges, che hanno stigmatizzato atti e parole della proprietà e della direzione. I giornalisti sperano che la rottura di Estefanía possa incoraggiare altri, nel gruppo, che non sono convinti dell’operazione in atto. Che, anche tra gli investitori, si muova chi ritiene che lo spostamento a destra del giornale sarebbe un drammatico errore editoriale e di mercato.
Comunque vada a finire, il giornalismo spagnolo non sarà mai più quello che è stato fino ad oggi.