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Jerome Salinger, la voce aspra dell’America

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Aspro, complesso e con un carattere tutt’altro che accomodante, Jerome David Salinger, di cui ricorre il decimo anniversario della scomparsa, è stato uno degli autori più amati, in America e in ogni angolo del mondo. “Il giovane Holden”, “The catcher in the rye”, il romanzo di formazione che lo ha reso celebre, è uno dei più letti di sempre nonché una fonte d’ispirazione per almeno quattro generazioni. E sbaglia chi afferma che il segreto di Salinger sia quello di aver aver accantonato la profondità in nome dell’immediatezza, di un messaggio che, non a caso, funziona anche in quest’epoca superficiale e segnata da una comunicazione fin troppo dirompente per essere associata a qualsivoglia forma di letteratura. Il vero segreto di Salinger, a parer mio, sta nell’aver reso la profondità in termini chiari, comprensibili a tutti, fin troppo diretti, se si pensa che il folle invasato che sparò e uccise John Lennon a New York, nel 1980, ha sempre ripetuto che glielo aveva ordinato Holden Caulfield, il protagonista del Catcher.
Ma chi era davvero Salinger? Senza dubbio un genio difficile, un uomo schivo, riservato ai limiti della misantropia, impossibile da gestire a livello editoriale e, ancor più, cinematografico, uno che ha vissuto per quasi cinquant’anni nell’oblio, tentando di distruggere la propria fama dopo essersela meritatamente conquistata e non pubblicando più una riga a partire dal 1965. Gli sono bastati i ricordi, la memoria di un capolavoro immortale, pagine che molti di noi hanno letto fino alla consunzione, una scrittura potente e incisiva come poche, forse come nessun altra, e il ritratto a tutto tondo di uno scapestrato che fin dall’immagine racchiusa nel titolo originale, quella di un cacciatore, inteso nel senso del baseball, in un campo di segale, rende bene l’idea della feroce ribellione alle regole da parte di una figura che emoziona e induce tuttora a riflettere.
La caratteristica migliore di Salinger è che non ha mai provato ad accattivarsi le simpatie dei lettori, non ha fatto nulla per rendersi gradevole, non è andato in giro a dispensare consigli, non ha cercato i riflettori, è scomparso e, come una sorta di precursore di Elena Ferrante, di cui non si conosce nemmeno l’identità, ha vissuto del suo mito, al punto che molti sono arrivati a identificarlo con Holden Caulfield fin quasi a sovrapporli.
Jerome Salinger è stato il cantore dell’America agra degli anni Cinquanta, quella in bilico fra modernità e conservatorismo bieco, quella in cui, poco dopo, sarebbe arrivata la cosiddetta “beat generation” a fornire una bussola alle frustrazioni dei ventenni in cerca di un altro domani, quella kerouachiana di “On the road”, quella sferzata da Ferlinghetti, Ginsberg e da colossi come Hemingway e Faulkner, prima delle rivolte degli anni Sessanta, delle proteste contro la Guerra del Vietnam, dei campus occupati, delle fragole e sangue e della dirompente grandezza di Bob Dylan e Joan Baez. Non è sbagliato, pertanto, asserire che senza Salinger lo stesso Sessantotto sarebbe stato diverso, in quanto le sue opere pongono interrogativi cui nessuno è stato ancora in grado di rispondere ma su cui tutti, anche in Europa, in quell’anno fatidico sono stati chiamati a riflettere.
E ancora oggi ci inquieta, ci tormenta, ci scruta dentro e ci appassiona, con le sue speranze e le sue traiettorie inimitabili, come l’ultima frase del Catcher: “È strano. Non raccontate mai niente a nessuno. Se lo fate, poi comincia a mancarvi chiunque”. Un monumento all’assenza, al vuoto, all’incorporeo, e questa è stata la sua autobiografia, il suo testamento spirituale, l’epitaffio sulla sua arte nonché il motivo della sua consacrazione.

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