La lunga, tormentata storia europea fu il motore dell’azione dei primi sei fondatori della Commissione Economica Europea, la CEE, per far entrare al più presto l’Inghilterra, come settimo stato membro. Il popolo inglese aveva sì combattuto per secoli con quello francese e spagnolo, ma questo dimostrava proprio che l’obiettivo comune era il dominio di quel meraviglioso continente chiamato Europa. E poi, nei secoli più recenti, gli inglesi avevano affiancato i francesi dalla battaglia della Marna fino allo sbarco in Normandia, erano stati i liberatori del continente dal nazismo e tutto sembrava andare verso un futuro comune.
L’Europeismo del dopo guerra in 25 anni li aveva convinti: aderirono alla CEE nel 1973 e nel 1975 i cittadini inglesi confermarono la scelta con il referendum. Avevo gli adesivi “keep Britain in Europe” sui jeans e ho fatto campagna per mesi con altri studenti italiani, francesi, tedeschi, olandesi a Londra: i giovani erano tutti convinti, e a Londra il 5 giugno del ’75 fu festa grande. Eravamo ragazzi e sembrava fantastico: niente più passaporti, andare e venire quando si voleva, in quel meraviglioso paese che in quegli anni con la sua musica aveva conquistato il mondo ed era già una società profondamente multietnica. Almeno questo sembrava a noi studenti di allora che del Commonwealth conoscevamo poco e la monarchia ci sembrava una deliziosa favola vivente. Degli inglesi ammiravamo la libertà, il senso dell’umorismo, tutto ciò che era pop, dalla minigonna ai megaconcerti all’isola di White.
Avevamo studiato nelle scuole dei nostri paesi che l’Inghilterra amava il suo “splendido isolamento” ma pensavamo anche che la guerra con l’Irlanda del sud non potesse essere per sempre, che eravamo troppo fratelli per non stare tutti insieme.
Non è andata così. Qualcosa non ha funzionato in questi 47 lunghi anni e oggi intorno ai palazzi europei ci sono 27 bandiere e non 28 e molte, dobbiamo dirlo, sanno di Europa assai meno della Union Jack che da poche ore è stata ammainata.
Il 1 febbraio è un giorno triste, il primo giorno di un’Europa più povera. Sarà dura anche per gli inglesi, la frattura non si potrà ricomporre facilmente e si allargherà il divario di pensiero, di cultura, fra chi vive nelle grandi città e chi nelle campagne. Una terribile tendenza che sembra non risparmiare nessun paese europeo. Per la mia generazione pensare di dover usare di nuovo il passaporto per andare nella terra dei Beatles, di Shakespeare, di George Best, di David Bowie, di Conan Doyle, di Aghata Cristie, è molto avvilente, il segno di una sconfitta. Qualsiasi cittadino europeo che si senta veramente tale avrà oggi un senso di malinconia e, anche inconsciamente, un senso di colpa per non aver saputo tenere in Europa il paese che ha inventato il parlamento, il welfare e ha voluto insieme a tutti noi il tunnel sotto la Manica per essere tutti più vicini. Speriamo che sia solo un arrivederci.