Quasi non fa più notizia. L’ennesima giornata di rivolta in Atene. Lo sciopero era stato indetto dai sindacati dei lavoratori privati e pubblici, oltre ad alcune categorie professionali quali medici, avvocati, notati. In piazza le solite divisioni, quelle dure e difficili che rendono la risposta del popolo greco una risposta frammentaria, disunita e, per questo, molto più facile da contenere. Il partito comunista che si ritrova con i suoi fedelissimi – oramai pochi in verità (giusto il 5% in parlamento) – in Piazza Omonia, e gli altri partiti con i sindacati che si trovano nell’altra piazza storica, Pediou tou Areos. Unico obiettivo comune: Piazza Sintagma, il parlamento.
Due piazze differenti per una protesta che sembra riguardare la sola capitale, anche se la stessa, quanto meno come popolazione, rappresenta circa il 40% dell’intero paese. Ma Atene non è né può essere la Grecia. E traghetti fermi, l’aeroporto chiuso per tre ore nella mattinata, lo sciopero degli altri mezzi pubblici cittadini, non hanno certo reso facile l’affluenza a chi, cittadino di Atene non è. E questo non solo oggi. In tutti questi anni solo una volta la protesta sembrava aver assunto i colori ed i toni di una vera rivolta popolare. Quella rivolta che invece, prima nel mancato appoggio al referendum che l’allora Primo Ministro Papandreou voleva indire per far approvare il secondo memorandum (fine 2010) ed infine nella doppia tornata elettorale del maggio e giugno scorsi, hanno sancito l’inesistenza di un corpo sociale coeso. Hanno dimostrato come in realtà questa società fosse effettivamente divisa in lobby, interessi e corporazioni e, pertanto, non ne sarebbe scaturita una risposta omogenea, determinata, coerente con la gravità degli accadimenti.
Nel frattempo il paese si è svuotato. Molte delle imprese hanno chiuso o si sono trasferite nei paesi di origine. I capitali certo sono da ben prima del 2009 al riparo fuori frontiera. Sono rimasti i miseri e qualche ricco che più per snobismo che non per convinzione, preferisce fare il vetusto decadente o che forse sa che solo qui può fare il ricco.
Nel frattempo si è preso, preteso, depredato. Iniziando dalle categorie meno organizzate e da quella in particolare che da sempre era servita da merce di scambio elettorale: la mastodontica macchina pubblica, degna di un paese popolato quindici volte tanto e privo di ogni e qualsiasi mezzo elettronico. Ma è così perché ha aiutato a sconfiggere lo spettro e la fame dei milioni di sfollati arrivati nel dopoguerra da ogni dove. Ma questo solamente qui si sa. Non è scusa che convinca ma, almeno giustifica parte della sua evoluzione.
Ma non è bastato: troppo grande era stavolta la nuova bancarotta del paese (la sesta dopo l’indipendenza in soli 190 anni!). E così sono rimasti sommersi dal mare fangoso delle imposte e delle gabelle i lavoratori privati, i professionisti, i piccoli imprenditori. La scure si è abbattuta senza fare troppi distinguo. E’ stato stabilito – da chi non si saprà mai perché verrebbe immediatamente lapidato secondo l’universale rito che punisce gli abbietti – che il minimo seppur sufficiente per vivere in questo paese, sarebbe stato di 500 euro mensili ed a questa cifra lo stato si è parametrato nell’effettuare i tagli e nell’imporre balzelli (ben contento per ché nel contempo avrebbe più a lungo potuto salvare certi privilegi). Balzelli che hanno portato il 20% della popolazione a questo tipo di entrata mensile. Nel frattempo ogni utenza è raddoppiata, gli affitti minimo sono di 250 euro mensili (per 30-35 metri quadri più o meno fatiscenti s’intende), la benzina costa 1,8 euro al litro, nei supermercati i prezzi sono tali per cui anche le più grandi catene hanno subito una flessione di oltre il 30% negli introiti. Nella sola Atene vi sono più di 100 mense che ogni giorno consegnano pasti gratuiti a chi non può più permetterselo.
Cinque anni sono passati da quando tutto questo è cominciato. Non una riforma che tendesse al rilancio dell’economia è stata varata. Non una iniziativa atta a frenare la mostruosa disoccupazione.
In cinque anni tanto marciume è venuto allo scoperto. Marciume sul quale si è abbattuto come una scure il disprezzo estero ed al quale con facile leggerezza è stata data la responsabilità del dissesto del paese. Vero, in parte. Ma è anche vero che dei miliardi fino ad oggi erogati dall’estero (difficile oramai dire quanti da chi), solo un 10% è andato al paese. Tanto per rispondere a coloro che parlano di aver “aiutato la Grecia”. Il resto se ne è andato all’estero per pagamento di debiti ed interessi che certo hanno ingrassato banche e speculatori. Intanto anche ieri, alla scuola media dove uno degli amici che qui ho porta i propri figli, due alunni sono svenuti e la causa è stata dal medico dell’ambulanza individuata nella malnutrizione.
E allora sì, i media di tutto il mondo diffonderanno le solite immagini di guerriglie inenarrabili, di beni pubblici distrutti, di scontri fisici. Ieri l’attenzione era per il manifestante morto. Morto ma anche ucciso. Ucciso da nessuno, forse solo dalla propria disperazione. Ma non c’era oggi un milione di greci. Non c’era oggi mezzo milione di greci. Non c’erano oggi trecentomila greci. Le cifre rimbalzeranno come al solito. La verità anche stavolta rientrerà tra quei 10.000 e quei 30.000 che cresceranno o scenderanno in base al colore politico di chi racconterà.
Io continuo a vedere una disperazione a doppio filo. Taglientissima. Una disperazione dovuta alla crisi economica che si sta, nella sua forma peggiore, quella dell’indigenza, allargando in tutti i centri del paese. E poi vedo la disperazione di una terra che sembra mancare di un popolo compatto, coeso, socialmente pronto ad affrontare quanto sta succedendo. “Non siamo educati a rispondere a questo” diceva oggi un amico professionista (broker di assicurazioni). “Nessuno ci ha mai insegnato a rispondere a queste situazione e, più che altro a prevenirle. Dovremo imparare in fretta”.
La giornata di guerriglia urbana è finita (almeno sembra). I telegiornali grazie alla fine dello sciopero hanno ripreso da qualche minuto. Scarne notizie. Interessano più i colloqui di Bruxelles dove già è risaputo che niente succederà. Per le vicende ateniesi sta facendo la parte del leone il disgraziato morto per quell’infarto del quale il destino ha voluto rimanesse vittima oggi, dandogli così l’onore della ribalta e la patina di eroe. Non sono cinico, assolutamente. Ma è inutile che la manifestazione di oggi sia stata bloccata per osservare un minuto di silenzio con ipocrita e teatrale senso di drammaticità (ne sono morti ben più di mille negli ultimi tempi e quello di oggi, in una disamina di tipo storico, è solo l’ultimo della lista. Domani potrebbe essere già il penultimo se niente cambia). Questa ennesima morte avrebbe invece potuto trasformarsi in ulteriore rabbia ed energia. Non per evolversi e manifestarsi in ulteriore violenza ma per trovare il coraggio di iniziare a fare quel radicale e colossale cambiamento che renderebbe così onore e rispetterebbe con seria partecipazione questo ennesimo deceduto sul cui referto medico è stato frettolosamente scritto “Causa della morte: infarto da disperazione”.
Il problema è che se andate in molte delle piccole isole (dove vive il 30% della popolazione totale del paese) a domandare nei villaggi cosa è successo, nessuno o quasi sarà in grado di rispondervi, come se abitasse nel vostro e non nel proprio paese oggi a serio rischio di autodistruzione. E questo non è facile sarcasmo ma uno degli aspetti che rende la vicenda sociale di questa terra difficile da comprendere e da rimediare. Una vicenda che nasce il giorno dell’indipendenza e che oggi non ha ancora trovato la strada di una corretta evoluzione.
Oggi sarà giornata di grandi proclami, di grandi parole di apprezzamento che giungeranno da Bruxelles. Di sorrisi patinati. Di ammonimenti. Di promesse. Di proclami e certezze del Primo Ministro Samaras (qualcuno ha capito come mai dal 1975, ovvero dal dopo-colonnelli in questo paese abbiano governato in alternanza perfetta sempre i soliti due partiti?).
Io spero unicamente che tutti facciano colazione.
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