Il giornalista bosniaco Dragan Bursać si è arreso: ha deciso di non sporgere più denuncia per le minacce di morte ricevute. Ne ha già sporte una quindicina e non è cambiato nulla. La vita difficile di un giornalista nel mirino
Articolo originariamente pubblicato da Mediacentar Sarajevo e pubblicato in italiano da OBC Transeuropa
Nonostante sia ancora bersaglio di minacce di morte, il giornalista Dragan Bursać non sporge più denunce alla polizia né agli organi giudiziari. Bursać ha deciso di non denunciare più le minacce ricevute dopo che un uomo – che in passato lo aveva minacciato e la cui identità è nota alla polizia – gli ha mandato un messaggio in cui diceva che le sue denunce erano inutili.
“Dopo un anno dalla [mia] denuncia, mi ha mandato il seguente messaggio: ‘Bursać, ecco, vedi che non è servito a niente’”, ricorda il giornalista. “Mi sono arreso. Non voglio più farlo. Non ho più sporto alcuna denuncia dall’aprile 2018. Mi chiamano [dalla polizia] per chiedermi se voglio sporgere denuncia. La polizia mi ha detto di aver scoperto alcune cose e di averne informato la procura, e poi niente, non ho ricevuto nessun feedback. Penso di aver sporto una quindicina di denunce per le minacce di morte ricevute”, spiega Dragan Bursać.
Bursać è spesso bersaglio di critiche, insulti e minacce di morte a causa dei suoi articoli fortemente critici nei confronti della politica perseguita dalla leadership della Republika Srpska, ma anche nei confronti delle narrazioni dominanti, soprattutto quelle sulla guerra in Bosnia Erzegovina del 1992-1995. Bursać, così come altri membri della sua famiglia, spesso riceve commenti negativi, insulti e minacce anche sui social network – dove ha circa 10mila follower – e più volte gli è stato suggerito di andarsene da Banja Luka.
Il giornalista ricorda la prima volta che ha ricevuto un’esplicita minaccia di morte. All’epoca lavorava per il portale informativo Buka di Banja Luka. Un giorno, all’indirizzo della redazione del portale, è arrivato un messaggio destinato a Bursać, che diceva: “Ti troveremo, ti uccideremo”.
Bursać ha scelto consapevolmente di indagare su temi delicati, di cui in Bosnia Erzegovina non si parla affatto, e di interrogarsi sul passato, mettendo in discussione le identità nazionali ed etniche dei tre popoli costituenti della Bosnia Erzegovina. A causa di questa scelta Bursać è sottoposto, tra l’altro, a frequenti atti intimidatori, che vanno dagli insulti alle minacce di morte.
Interrogare il passato bellico
Dragan Bursać, classe 1975, è cresciuto a Bosanski Petrovac. Nel 1989 si trasferisce a Banja Luka, dove per due anni frequenta il liceo. Allo scoppio della guerra in Bosnia Erzegovina si trasferisce in Serbia. Terminata la scuola superiore a Sremska Mitovica, si iscrive alla Facoltà di Filosofia di Novi Sad. Nel 1995 viene mobilitato dall’Esercito della Republika Srpska. Dopo la fine della guerra torna a Novi Sad, per completare gli studi. Qualche anno più tardi decide di tornare a Banja Luka e nel 2002 inizia a lavorare come giornalista per una radio locale. Nei tre anni della sua permanenza alla radio, Bursać si è occupato di vicende legate ai progetti infrastrutturali realizzati a Banja Luka, di problematiche locali e fatti di cronaca. Tuttavia, ci sono stati dei disaccordi tra Bursać e altri membri della redazione riguardo ad alcuni temi cui Bursać voleva affrontare.
“C’erano vari argomenti che risultavano incompatibili con le linee editoriali dominanti. Una delle prime storie di cui mi sono occupato è stata quella dei 12 neonati morti in ospedale ”, ricorda Bursać, precisando di aver seguito questa storia per circa 15 anni. Nel 1992, all’inizio della guerra in Bosnia Erzegovina, 12 neonati sono morti al reparto di terapia intensiva neonatale dell’ospedale di Banja Luka per mancanza di ossigeno necessario per garantire un’adeguata assistenza respiratoria neonatale.
“Questo evento è stato sfruttato per avviare l’operazione militare ‘Koridor’ [Corridoio] che mirava a collegare la parte occidentale della Republika Srpska con quella orientale. Ma nessuno ha spiegato i motivi per cui mancava l’ossigeno. Allora ho deciso di indagare un po’ e ho scoperto che l’ossigeno era arrivato all’ospedale, da tre fonti diverse. Ma poi è scomparso”, spiega Bursać. Aggiunge inoltre che la radio di Banja Luka per la quale lavorava all’epoca non era disposta a dare spazio a storie come questa, per cui ha deciso di collaborare con il portale Buka , oggi uno dei principali portali informativi in Bosnia Erzegovina.
Guardando allo sviluppo del giornalismo in Republika Srpska negli ultimi vent’anni, Bursać evidenzia alcuni temi dominanti, spiegando che nel periodo tra il 2002 e il 2006 i media in Republika Srpska hanno parlato soprattutto di sviluppo economico, poi dal 2006 al 2010 si sono focalizzati sul tema della ri-egemonizzazione nazionale, e a partire dal 2010 hanno parlato perlopiù di nuove guerre, ma anche del passato.
“Non so se si tratti di un progresso o regresso. Abbiamo dovuto occuparci di sviluppo [economico] nel periodo tra il 1996 e il 2002, così come abbiamo dovuto occuparci anche di fosse comuni e crimini di guerra”, afferma Bursać, aggiungendo: “La storia dei 12 neonati mi ha fatto tornare al 1992, e da allora ho cominciato ad occuparmi sempre di più del passato”.
Dragan Bursać si occupa di temi legati al confronto con il passato, ai traumi di guerra, crimini di guerra e (presunti) eroi di guerra. Per il suo impegno professionale ha vinto lo European Press Prize 2018 . Ha scritto diversi articoli sulla fossa comune di Tomašica, sul genocidio di Srebrenica, sul massacro di Markale, mettendo in discussione le narrazioni dominanti in Republika Srpska che negano i crimini di guerra commessi contro la popolazione non serba.
“Più mi interessavo a queste tematiche, più mi imbattevo in persone che fungevano da guardiani del silenzio”, ricorda Bursać. “Quella era una narrazione nascosta che nessuno ha mai voluto affrontare. Da lì è iniziato tutto. Diverse idee, persone, minacce”.
Nonostante ricevesse spesso minacce di morte, Bursać ha denunciato per la prima volta le minacce ricevute nel 2017 dopo la pubblicazione di un suo articolo intitolato “Slavi li Banja Luka srebrenički genocid?” [Banja Luka festeggia il genocidio di Srebrenica?]. Prima di allora non prendeva sul serio i rischi connessi al suo lavoro. Poi ha fatto una ricerca su Internet e ha scoperto alcuni forum in cui si discuteva ormai da anni – più precisamente da quando Dragan ha iniziato ad occuparsi di giornalismo – di “come uccidere Dragan Bursać e cosa fare se lo si incontra in piena notte: picchiarlo con una mazza o qualcosa di più creativo”.
“Mi è capitato più volte che in un luogo pubblico mi si avvicinasse un uomo ubriaco dicendomi: ‘Traditore!’ Mi è capitato anche che i proprietari di alcuni ristoranti non volessero farmi entrare. Ma non ci davo troppa importanza… finché non ho cominciato a ricevere serie minacce di morte sui social network”, spiega Bursać.
“Nel momento in cui ho deciso di indagare e di portare alla luce quanto accaduto durante la guerra e nell’immediato dopoguerra – era forse il 2012 – ho iniziato a ricevere vere e proprie minacce, anche da parte delle persone che fino a quel momento mi applaudivano. A loro avviso, se io attacco il governo della Republika Srpska, cioè l’Unione dei socialdemocratici indipendenti (SNSD), allora vuol dire che appoggio il Partito democratico serbo (SDS). In realtà, SNSD e SDS condividono la stessa ideologia neo-cetnica. Quando ho cominciato a mettere a nudo pubblicamente questa ideologia e il loro atteggiamento nei confronti del passato e delle vittime [di guerra], soprattutto quelle appartenenti alla popolazione non serba, tutte le maschere sono cadute. Mi sono reso conto che sotto un primo esiguo strato di pudore si nasconde un male ideologico che non accetta assolutamente alcuna opinione diversa. Questo fenomeno va dall’ignoranza alle minacce”, spiega Bursać, che oggi lavora come editorialista per Al Jazeera Balkans e per il portale di Radio Sarajevo.
“I miei tentativi di svelare alcune mancanze nell’operato dell’amministrazione comunale e le frodi nelle forniture pubbliche non davano fastidio a nessuno, all’epoca non avevo mai ricevuto alcuna minaccia. I problemi sono sorti quando ho cominciato ad occuparmi dei crimini di guerra, del genocidio e delle ideologie che portarono alla guerra e che continuano ad alimentare l’ansia sociale”, spiega Bursać.
Trattato come se fosse un imputato
Dragan Bursać ricorda come funziona e quanto dura la procedura di presentazione di una denuncia per minacce. Cita l’esempio delle minacce ricevute qualche anno fa sul web da parte di una persona che si era collegata alla rete da Banja Luka tramite un server in Danimarca, e poi è stata rintracciata grazie all’indirizzo IP.
“Mi telefonano dicendomi di venire al ministero dell’Interno. Una volta arrivato mi informano di aver trovato quella persona, e uno [dei poliziotti] mi dice: ‘è un bravo ragazzo’ e mi chiede se voglio firmare la dichiarazione di rinuncia alla querela. Mi dicono nome e cognome dell’uomo [che mi ha minacciato], suggerendomi di non denunciarlo. Cercano di convincermi di perdonarlo. Poi ho cercato un po’ su Google, ho visto che era coinvolto in una vicenda serbo-russa, ho visto una foto di Putin, non ho capito molto. Nome e cognome non mi dicevano nulla. E allora ho firmato… i poliziotti mi hanno convinto”, racconta il giornalista.
Tenendo conto del fatto che all’ultimo censimento della popolazione effettuato in Bosnia Erzegovina la maggior parte degli abitanti di Banja Luka si sono dichiarati serbi, e che la stragrande maggioranza dei politici di Banja Luka e dei media mainstream continua a difendere quanto fatto dall’Esercito della Republika Srpska durante la guerra, compresi i crimini condannati dal Tribunale penale internazionale per la ex Jugoslavia, risulta chiaro perché le questioni, per nulla semplici, sollevate da Dragan Bursać nei suoi articoli provocano reazioni furiose da parte di molti.
“Stavo rilasciando una dichiarazione alla polizia, dovevo dire se pensavo davvero che Banja Luka avesse festeggiato il genocidio di Srebrenica, e nel loro ufficio c’era una foto di Mladić”, ricorda Bursać.
“Ogni volta che mi sono recato lì [i poliziotti] mi hanno trattato come se fossi il principale imputato, come se io avessi fatto qualcosa… come se volessero dirmi: ‘Perché sei venuto?’ Erano già stufi di dover occuparsi (per dovere d’ufficio) della mia denuncia, ci mancavo solo io”, racconta Bursać.
“È uno spazio aperto, come un ufficio postale, la gente passa in continuazione. E allora dovevo parlare più forte. I poliziotti mi chiedono: ‘Cosa ha detto? Chi è Mladić?’. E io rispondo: ‘Un criminale’. Poi ancora: ‘Cosa ha scritto?’. Io ripeto: ‘Un criminale’. ‘Ah, sì, un criminale’, dicono i poliziotti. Allora la metà dei presenti gira lo sguardo verso di noi… Poi la gente mi dice: nessuno ti ha costretto a infastidire i cittadini onesti, a provocare”.
Dragan Bursać continua a ricevere minacce, ma non le denuncia più. Dice che la polizia fa quello che deve fare ma tutto quello che scoprono se lo passano alla procura, lì rimane
Per Bursać la protezione migliore è quella fornita dall’opinione pubblica, motivo per cui parla sempre pubblicamente delle minacce ricevute. Tuttavia, sostiene di essere lasciato alla mercé della folla che vorrebbe linciarlo.
“Non è mai stato avviato alcun procedimento penale, nessuno mi ha mai chiamato. Non c’è stata alcuna sentenza, come se nessuno mi avesse mai minacciato”, afferma Bursać, e aggiunge: “Penso che quelle persone aspettino che mi succeda qualcosa di brutto, per poi dire che sapevano qualcosa”.
Dragan Bursać (foto Mediacentar Sarajevo )
L’articolo originale è frutto di una collaborazione all’interno della rete giornalistica delle organizzazioni SNEEPM e IFEX, di cui Mediacentar Sarajevo fa parte