Oggi Federico Fellini compirebbe 100 anni. Sarebbe un prezioso, insostituibile vegliardo, se non avesse deciso, come fanno a volte i maghi, di scomparire inaspettatamente, lasciando una gran scia di luce, ma una grande nostalgia di sé, un gran vuoto, che il nostro cinema claudicante non riesce a colmare.
Con la sua uscita di scena si sono dileguati un sogno, un gusto, uno ‘stil nuovo’, e infine la dolce assuefazione al suo universo di immagini che ci hanno visitato periodicamente durante una lunga stagione gloriosa. Fellini coincideva con la gioia di correre in sala, verso quella dimensione sospesa in cui era possibile sconfinare a piacere, aprendo una porta, scostando una tenda e sprofondando nella poltrona di velluto davanti allo schermo. Si veniva trasportati in un altrove mentale, un’esistenza parallela in cui la festa dell’intelligenza si nutriva di divertimento, di commozione, di pulsioni creative. Si riemergeva dal sogno a occhi aperti rinfrancati, più leggeri, arricchiti di un dono impalpabile che si espandeva dentro l’anima e ci induceva a credere al miracolo dell’essere umano, al nostro imperscrutabile destino di semidei.
Questo sentimento non accompagna quasi più le immersioni cinematografiche, in parte per carenza di talenti, in parte più verosimilmente perché siamo frastornati dall’alluvione di immagini quotidiane che ci sommergono da ogni schermo a portata di mano, favorendo quel processo di ‘derealizzazione’ che Fellini aveva preannunciato già dagli anni Ottanta.
Se in “Ginger e Fred”, aveva raccontato l’arrembaggio delle emittenti private e lo scadimento dello spettacolo di massa, in Intervista i pellerossa, all’alba, scatenano l’attacco al fragile accampamento dei cinematografari, impugnando antenne televisive al posto delle lance.
Da artista visionario e quindi profetico, Fellini aveva previsto tutto ciò, però non sapremo mai come sarebbe riuscito a rappresentarlo nelle sue acrobatiche fantasmagorie:
“Costruiamo lampadari per case senza soffitto”, mi aveva avvertito in finale di partita, quando non gli rimaneva più molto da vivere.
Proviamo allora a compiere una rapida ricognizione della sua opera.
Con Luci del Varietà, Lo Sceicco Bianco, I Vitelloni, l’Amore in città, il regista aveva liquidato senza appello la breve stagione del Neorealismo; girando capolavori come La Strada, Il Bidone, Le Notti di Cabiria, fecondò salutarmente il cinema con il suo ineffabile spiritualismo fiabesco. La dolce vita, Otto e Mezzo, Giulietta degli Spiriti, traghettarono il paese nella modernità, nel nuovo malessere e nella nevrosi del primo miracolo economico. Toby Dammit e Satyricon ci annunciarono un cambiamento epocale in arrivo sul tornado della rivolta studentesca e del Sessantotto, con tutti i relativi derivati tossici; I clown, Roma, Amarcord, Casanova dipinsero la nostalgia della ‘memoria inventata’ come specchio per ogni futuro. Prova d’Orchestra ritrasse l’Italia di un cataclisma scongiurato; La Città delle donne, Ginger e Fred, E la nave va ci regalarono la corsa irrefrenabile verso un ‘cupio dissolvi’ e la fine dell’armonia; Intervista e La voce della luna, infine, ci aiutarono a credere che l’arte, il sogno, l’inconscio, l’insania dei lunatici ci avrebbero salvato, e in ogni caso redenti.
Storie meravigliose nelle quali il grande aedo ci ha consegnato messaggi e rivelazioni penetranti parlando semplicemente e coraggiosamente di sé stesso, senza mai tentare prediche o imporre ideologie. La pura voce di un poeta.
Dire dunque che Fellini ci manca, è poco. Fino a quando Federico è esistito, esisteva anche il suo sguardo, la sua ironia, la sua intelligenza, la sua libera fantasia, la sua salutare irriverenza. E la sua capacità rara di racchiudere nell’opera proposta un punto di vista che ci avrebbe aiutato a capire, una prospettiva in cui riconoscerci.
Fellini era un precursore; la sua poetica che potremmo definire un «onirismo veggente», interpretava i segni con anticipo, costruiva metafore acrobatiche. Eravamo tutti in attesa dei suoi film, anche coloro che forse oggi l’hanno dimenticato o lo rinnegano.
I Presidenti della Repubblica organizzavano proiezioni al Quirinale, i quotidiani, i rotocalchi, dedicavano intere pagine ai film del Maestro, a cui accorrevamo come a funzioni magiche e religiose; era il canto delle Muse, la voce dell’Arte che alzavano la loro melodia e che ci incantavamo ad ascoltare.
Nel cinema questa tonalità di voce che ci aiuta a diradare la nebbia e non di rado a dare un senso all’esistenza, scomparso Fellini si è come arrochita, fino a diventare afona. L’esaltazione che Federico ci ha fatto provare, per ora non si è più riproposta; né sapremmo con che cosa sostituire la lussureggiante parata di creature, di immagini, di personaggi che continuano a tenerci compagnia, a perdurare incancellabili nel nostro immaginario.
Altri registi realizzano film, anche belli e importanti, ma Fellini è stato l’unico a creare un universo personale in cui ci ha invitato ad abitare; dando forma carne e anima ai nostri fantasmi, avvincendoci in un sogno collettivo in cui l’esistenza si annunciava più felice e consapevole.
Quando nei dizionari anglosassoni è stato introdotto il neologismo Felliniesque, Federico aveva commentato ironicamente:
“Ho sempre aspirato a diventare un aggettivo, anche se non capisco cosa significhi Felliniesque”.
Nel lemma a lui dedicato si legge di “un fiammeggiante approccio mediterraneo alla vita e all’arte”. Senza dubbio c’è anche questo nello stile di Fellini, ma io penso che in quell’attributo anglicizzato, si possa trovare ben altro, soprattutto l’esistenza di un “terzo occhio”. Nel Glossario Felliniano ho provato ad ampliare l’angolo di visuale:
“Per sua natura Federico disponeva della facoltà di vedere l’invisibile, ed è questa particolare attitudine che potrebbe essere associata a ciò che normalmente cade sotto l’aggettivo felliniano, o felliniesque. L’originalità dello sguardo, così preciso, che Federico trasponeva nel cinema, era null’altro che la sua visione delle trasparenze nella vita quotidiana; gli avvenimenti, le persone, gli oggetti, gli scorci su cui i suoi occhi si posavano assumevano una luce diversa, svelavano un’essenza che rimaneva velata alla percezione ordinaria”.
Lo sforzo che andrebbe tentato per il Centenario dell’artista, è proprio di conoscere meglio la sua natura creativa, non inebriarsi soltanto alla sua fama, a quanto di pittoresco, di leggendario circonda la sua figura, trascurando magari di familiarizzarci con maggior consapevolezza ai suoi film. Perché essi sono un inesauribile serbatoio di salute.
La data di oggi ci galvanizza, ma ci ricorda anche quanto poco ci siamo adoperati, o ci stiamo adoperando per non disperdere la sua eredità; auguriamoci che, nella prospettiva delle celebrazioni per il Centenario, si sviluppi nei confronti del nostro regista più amato nel mondo una sensibilità diversa. Festeggiamo Fellini nel giorno del suo compleanno, con grata e complice allegria ma anche con l’auspicio che Rimini diventi veramente “La mia Rimini”, come Federico l’aveva affettuosamente chiamata, e che in tutta Italia si assista finalmente a un vero “risveglio felliniano”, con la realizzazione di un progetto culturale in grado di onorarne degnamente la memoria e di costruire, anche grazie al suo insegnamento, una società più colta e più giusta.
Dal primo all’ultimo film l’opera di Fellini ci insegna a non scoraggiarci, a non arrenderci, a combattere per la nostra libertà, per la nostra compiutezza esistenziale:
“La vita è una festa, viviamola insieme”.
Approfittiamo di questa fortuna: non è da tutti avere un Fellini per amico.