È stata la più grande tragedia sul lavoro accaduta dal secondo dopoguerra in poi, ma non è stata una tragica fatalità: «…lo scenario in cui si operava rendeva l’evento catastrofico non dipendente dalla casualità ma piuttosto appartenente all’insieme delle quasi certezze» si legge nella relazione conclusiva del collegio di otto esperti nominati dal giudice istruttore dopo la morte di 13 lavoratori a bordo della “Elisabetta Montanari” il 13 marzo 1987.
1987: prima della 626, ma non proprio un’era geologica fa, le prime leggi che regolamentano la sicurezza sui luoghi di lavoro risalgono agli anni Cinquanta. Quasi 33 anni che sembra non siano serviti a niente, se pensiamo che nel 2019 sono stati 701 in Italia i morti sui luoghi di lavoro (fonte: Osservatorio indipendente di Bologna sui morti sul lavoro curato da Carlo Soricelli); se pensiamo che a neanche due settimane dall’inizio di un nuovo anno già piangiamo un altro morto: Raffaele Ielpo, 42 anni, deceduto ieri a 18 metri sotto terra mentre lavorava per costruire la linea 4 della metropolitana milanese. Ma sono morti che, soprattutto se singole, non fanno più notizia e finiscono nelle pagine interne dei giornali. «Eppure», dichiara Umberto Laureni, uno dei tecnici che ha affiancato i periti del tribunale che indagavano sulle responsabilità di quanto accaduto sulla nave gasiera in secca ai cantieri navali Mecnavi di Ravenna il 13 marzo 1987, «si tratta di eventi che si ripetono in Italia con spaventosa continuità e che stanno, in qualche modo, generando assuefazione invece che vero sdegno sociale.» Per questo Laureni, ingegnere chimico che ha dedicato la sua vita professionale e non alla sicurezza sui luoghi di lavoro, ha raccontato decine di volte quella storia e ora ha deciso di collaborare per metterla in scena: per tenerne viva la memoria, perché “non deve più succedere” non sia solo una frase di circostanza, uno slogan buono per tutte le stagioni, dal 1987 ad oggi. Perché Filippo Argnani, Marcello Cacciatore, Alessandro Centioni, Gianni Cortini, Massimo Foschi, Marco Gaudenzi, Domenico Lapolla, Mosad Mohamed Abdel Had, Vincenzo Padua, Onofrio Piegari, Massimo Romeo, Antonio Sansovini e Paolo Seconi non siano morti invano. Uomini tra i 18 e i 60 anni — tre al primo giorno di lavoro, uno a un passo dalla pensione — sorpresi da un incendio mentre lavoravano in condizioni disumane, alcuni come carpentieri altri come “picchettini”. Questi ultimi, a cui spettava il compito della pulizia della stiva, dovevano incunearsi in ambienti ristretti, un enorme labirinto di cellette alte non più di 90 cm, e rimanere distesi sulla schiena o sul ventre, «al limite delle possibilità umane» come scrisse un magistrato.
Come topi, tuonò mons. Tonini, l’allora arcivescovo di Ravenna, durante l’omelia funebre. «Parola dura,» riconobbe, «detta da un vescovo all’altare: eppure deve essere detta, perché mai gli uomini debbano essere ridotti a topi!»
Dal momento che non erano state previste vie alternative di fuga, era impossibile pensare di scappare, tanto più se alle innumerevoli omissioni si aggiungeva il cinismo dei responsabili, che anziché collaborare con i Vigili del Fuoco corsero a casa dei dipendenti per recuperare i libretti di lavoro e tentare di metterli in regola. Del resto Enzo Aurienti, uno dei proprietari dei cantieri, pochi giorni prima della tragedia si era pubblicamente vantato che nei suoi cantieri non fosse mai entrato il sindacato: «Sono convinto» aveva dichiarato «che chi vale, chi sa lavorare, sa tutelarsi da solo. Per la mia attività ho bisogno di gente elastica, disponibile a fare lo straordinario senza troppe storie. Paghiamo penali enormi per i ritardi delle consegne.» Altro che penali: 13 persone pagarono con la vita, mentre lui, il principale responsabile, non pagò neanche con un giorno di carcere.
Un’ingiustizia a cui il teatro civile riesce a dare efficacemente voce grazie alla regia di Leandro Lucchetti, che è anche autore del testo, e alla convincente interpretazione di Sergio Pancaldi e Luca Famularo. Lo spettacolo “…telefonano che c’è un incendio su una nave…” ha debuttato a Trieste mercoledì 8 gennaio ed è stato realizzato da CGIL, Circolo di studi politico-sociali “Che Guevara” e Associazione culturale La macchina del testo di Trieste con il patrocinio del Corpo nazionale dei Vigili del Fuoco e della Società Nazionale Operatori della Prevenzione e la collaborazione del Teatro Miela Bonawentura; la scenografia è di Roberto Pignataro, la musica di Andro Cecovini, la consulenza tecnica di Umberto Laureni. Un pugno nello stomaco che ci auguriamo aiuti la società a non digerire più i troppi morti sul lavoro che non abbiamo il coraggio di chiamare strage.
Foto di Marinella Zonta