Dopo l’uccisione dell’ambasciatore americano in Libia e i gravi incidenti scoppiati in tutto il mondo originati, parrebbe, dalla diffusione del film semi-amatoriale su Maometto, sono riemersi prepotentemente i fantasmi di quello che è stato definito, anche prima dell’attentato alle Twin Towers, “scontro di civiltà”. Abbiamo ripreso, allora, il bel libro di Mark LeVine, storico statunitense dell’area mediorientale, intitolato “Perché Non ci Odiano” e pubblicato qui in Italia, quattro anni fa, da DeriveApprodi (www.deriveapprodi.org). LeVine ha un’opinione ben differente da quella veicolata dal mainstream informativo il quale, specie negli ultimi venti anni, ha diviso il mondo in due fazioni opposte identificate, almeno in Occidente, in esercito dei “buoni” ed esercito dei “cattivi”. Ovviamente ai “buoni” appartiene la cultura occidentale, i suoi standard di progresso e civilizzazione, la fede nello sviluppo illimitato, mentre i “cattivi” sono quelli dell’Oriente musulmano ancora fermi a pratiche e comportamenti medievali. Pur evitando interpretazioni edulcorate o “buoniste”, denunciando, anzi, come molti, ancora troppi, paesi di cultura musulmana presentino statistiche sociali spaventose (riguardo ad alfabetizzazione, reddito, libertà), LeVine ridimensiona nettamente il rancore che gli arabi nutrirebbero nei nostri confronti e che ha giustificato le invasioni di Afghanistan ed Iraq. E’ vero che, dopo le operazioni funzionali all’obiettivo della “libertà duratura”, in queste regioni la popolarità di Bush è scesa più in basso di quella di Bin Laden, ma non poteva essere altrimenti: questi popoli, infatti, si sono sempre dovuti sottomettere alle logiche colonialiste delle grandi potenze occidentali pagando un altissimo prezzo di vittime umane (e di risorse depredate) per delle guerre che non hanno mai scelto di combattere.
Due anni prima che uscisse il libro di LeVine, il giornalista-attivista Paolo Barnard si presentò con un libro dal titolo quasi identico, “Perché Ci Odiano”, in cui si denunciava come il terrorismo arabo o africano non fosse altro che una conseguenza del terrorismo americano e degli alleati occidentali. LeVine vuole andare oltre ed il suo “Non” sta indicare come, in realtà, nonostante i torti subiti, le popolazioni “sottosviluppate” non vivano o si alimentino di odio, ma anzi riconoscano ed apprezzino le libertà occidentali, le desiderino, vi aspirino. Quello che non possono sopportare sono le politiche “espansionistiche” del Nord del mondo, ovviamente…Per LeVine, infatti, la maggior parte di queste genti non cerca la vendetta, ma sarebbe disponibile a trattare per una soluzione di pace che soddisfi tutti, aperta ad un’integrazione con i valori positivi dell’Occidente, considerato che ne riconosce i migliori standard di vita. E di LeVine, con tutta probabilità, ci si può fidare dato che racconta cose che ha toccato ed osservato sul campo, a differenza di tanti altri. Anche per la sua passione musicale (da ex chitarrista professionista), infatti, continua a girare per il mondo, a confrontarsi con ogni cultura e, soprattutto, ad esplorare le zone “più calde” in termini geopolitici. Ci si può fidare, anche perché lui stesso è un americano che non rinnega la sua cultura e le sue radici.
A chi, quindi, desidera andare oltre le grossolani esemplicazioni riguardanti il presunto “scontro di civiltà” veicolate dai mass media, smarcarsi dall’“asse dell’ignoranza” (come lo chiama LeVine) strutturato dai neocon statunitensi, consigliamo accoratamente di recuperare e leggere questo libro che, allo stesso tempo, offre un’analisi interessante dei difetti e dei “peccati originali” della globalizzazione economica. Fedele al suo background artistico, l’autore ha pure inserito un capitolo, seppur breve, riguardante l’espressione della musica “impegnata” in Medio Oriente e Maghreb.