La circostanza che in data 1° gennaio 2020 sia entrata in vigore la nuova normativa (c.d. norma “Buonafede”) – introdotta lo scorso anno con il decreto “Anticorruzione” – in forza della quale la prescrizione cessa di decorrere con la sentenza di I grado, ha suscitato scomposte reazioni da più parti. Come era prevedibile, i primi ad insorgere sono stati gli avvocati penalisti che hanno deliberato il consueto sciopero che ha paralizzato per alcuni giorni il funzionamento della Giustizia determinando il rinvio di migliaia e migliaia di processi. Secondo i legali, la nuova normativa “avrà l’effetto paradossale di allungare i tempi di definizione dei procedimenti e che il rischio del processo con cittadini imputati in eterno è dietro l’angolo”.
Sono, poi, insorti i “giuristi” di centrodestra che hanno usato parole forti: “omicidio del processo penale”, “sommossa costituzionale”, “svolta sudamericana”. Di particolare veemenza è stata la reazione dell’ex ministro della P.A., (in quota Lega) avv. Giulia Bongiorno secondo cui “bloccare la prescrizione dopo il I grado di giudizio è come mettere una bomba atomica nel processo penale”, laddove la vera bomba atomica è stata quella sganciata sui processi nel dicembre 2005 con la legge c.d. “ex Cirielli” (maggioranza di centrodestra) che – scientemente inserita nello già inceppato meccanismo del processo penale – ha determinato la “distruzione”, in 14 anni, di circa 2.000.000 di processi – (ivi compresi gli enormi scandali di corruzione e i gravissimi disastri colposi, con centinaia di vittime, assicurando in tal modo l’impunità per politici, alti burocrati e potenti imprenditori) – con una media di 150.000 l’anno così determinando una situazione di denegata giustizia per le parti offese e, seppur in misura molto minore, per gli stessi imputati che, però, spesso hanno spacciato la prescrizione per un’assoluzione (come nel processo Andreotti).
Tutte le forze politiche (anche di maggioranza), con esclusione naturalmente del M5S che ha voluto tale normativa, sono insorte – forse temendo di perdere un prezioso salvacondotto e impunità – presentando disegni di legge di sostanziale modifica o addirittura di abrogazione della normativa in questione. Il forzista Enrico Costa, che ritiene uno “scempio la riforma Bonafede”, ha presentato una proposta di legge per cancellare tale norma, proposta che sarà discussa l’8 gennaio in commissione Giustizia. Non si esclude che proprio il tema della prescrizione possa determinare una crisi di governo.
Nel dibattito è intervenuto anche il costituzionalista Gianluigi Pellegrino il quale – pur dando atto che “negli anni, il pur civile istituto della prescrizione, aveva portato con sé e con la sua degenerazione una intollerabile impunità” – ritiene che la nuova normativa “generi l’effetto paradossale di aprire una nuova via all’impunità, perché condanne che non diventano mai definitive equivalgono a pene che mai si scontano e a parti civili che mai hanno giustizia”, mentre è necessario che “davvero il processo abbia in tempi ragionevoli un verdetto finale per esigenza minima di civiltà giuridica”.
Sono entrati in campo anche magistrati come Raffaele Cantone e Armando Spadaro che hanno invocato il principio della “ragionevole durata del processo”. In particolare, l’ex Procuratore della Repubblica di Torino ha affermato che “l’intento è arrivare a concludere il processo. Ma prevedere un tempo infinito non va bene e urta contro il principio della sua ragionevole durata. Né la condanna di primo grado equivale ad una sentenza definitiva” (per la verità, l’ex Procuratore di Torino – come rivela il “Fatto Quotidiano” del 30 dicembre scorso aveva dichiarato a “La Repubblica” del 14/2/2016: “adesso è assolutamente necessario che il Parlamento approvi una legge che interrompa il decorso della prescrizione almeno dopo la sentenza di primo grado, anche se fosse meglio che ciò avvenisse dopo il rinvio a giudizio”).
In sostanza, coloro che si oppongono alla norma “Bonafede” invocano il principio della ragionevole durata del processo” e temono che le sentenze non diverranno mai definitive.
Entrambe queste argomentazioni sono destituite del sia pur minimo fondamento giuridico e fattuale.
Quanto al principio costituzionale della “ragionevole durata del processo” esso, esprimendo un diverso valore giuridico, non ha nulla a che vedere con la prescrizione. Sia la Convenzione europea, sia la giurisprudenza di Strasburgo, sia il precetto sancito dall’art. 111 Cost. esigono che, in tempi ragionevoli, si pervenga ad una pronuncia nel merito di una controversia (che assolva o condanni) non ad una pronuncia di mero rito, come quella che consegue alla dichiarazione di estinzione del reato che si risolve in un meccanismo che ostacola l’accertamento sul merito della questione dedotta in giudizio (e, quindi, anche la possibile assoluzione dell’imputato).
Quanto al pericolo che i processi non finiscano mai, si tratta di una mera supposizione, basata sul nulla, quasi che i giudici dell’impugnazione possano accelerare o ritardare la definizione dei processi a loro piacimento e arbitrio. È bene ricordare che, per quanto riguarda la Cassazione, il relativo giudizio viene definito tra i sei e gli otto mesi dall’arrivo del ricorso e non vi è alcuna ragione per dubitare che tale celere meccanismo sarà alterato. Per quanto concerne l’appello – vero imbuto del processo – è qui che si consuma il maggior numero di prescrizioni che, con l’emendamento in questione, non avrà più modo di realizzarsi e ciò determinerà anche una consistente diminuzione di impugnazioni, il più delle volte, proposte proprio per far maturare la prescrizione. Peraltro, la preoccupazione di processi infiniti è facilmente superabile attraverso la vigilanza che i capi delle Corti di Appello hanno l’obbligo di esercitare sulla sollecita definizione dei processi, sul rispetto dei termini per il deposito delle motivazioni e per il sollecito inoltro dei fascicoli in Cassazione. Il P.G. presso la Cassazione ha tutti i poteri – ai fini di un eventuale esercizio dell’azione disciplinare – per richiedere periodicamente l’elenco dei processi pendenti presso le Corti di Appello.
Il vero appunto che può muoversi al ministro, è quello di non aver proposto che la prescrizione si blocchi con il rinvio a giudizio e ciò, sia per la correlazione di tale istituto con l’esercizio dell’azione penale, sia per la considerazione che – atteso lo sfascio del sistema processuale – una gran quantità di processi continuerà, come oggi avviene, ad estinguersi per prescrizione dichiarata con la sentenza di I grado (si pensi ai complessi procedimenti, soprattutto in tema di disastro ambientale e ai reati per abusi edilizi).
Sarà possibile evitare tale scandalosa situazione (che, come si è detto, in parte rimarrà) con interventi strutturali sul processo: il primo, sicuramente idoneo a rendere più celeri i processi, è quello di eliminare l’udienza preliminare e, cioè, quella udienza c. d. “filtro” che si è dimostrata del tutto inutile – (nell’80% dei casi il GUP dispone il rinvio a giudizio, nei restanti 20, i provvedimenti di proscioglimento, ove il giudice sia sceso nel merito, vengono annullati dalla Corte di Cassazione) – e che, soprattutto nei processi complessi, allontana non di poco la data di inizio del dibattimento, portandoli a sicura prescrizione. Del resto, appare coerente con il sistema processuale e con il principio cardine del processo penale secondo cui la prova si forma in dibattimento che il P.M. – il quale può richiedere l’archiviazione degli atti quando ritenga infondata la “notitia criminis” o che l’accusa non sia sostenibile in giudizio – disponga, negli altri casi, direttamente il rinvio a giudizio richiedendo al giudice di fissare la data dell’udienza Infine – oltre ad emanare provvedimenti destinati a sanare la cronica mancanza di organico del personale e a riammodernare un inefficiente sistema di notifica degli atti (altra causa, non secondaria, di continui rinvii) – è necessario modificare, con la massima urgenza, l’art. 194 dell’ord. giud. elevando ad almeno 5 anni la permanenza minima dei magistrati nello stesso ufficio giudiziario, (attualmente di tre), in maniera da procrastinare i continui trasferimenti, soprattutto dei magistrati di prima nomina che aspirano a ritornare nelle regioni di provenienza o ad essere trasferiti in uffici giudiziari più importanti. Tutto questo comporta una serie continua di rinvii dei processi sia per il “congelamento” dei ruoli di udienza del magistrato trasferito, e, di regola, quasi sempre tardivamente sostituito, sia in virtù del principio della immutabilità del giudice che impone che sia lo stesso giudice, (come persona fisica), che ha tenuto l’udienza, a provvedere alla delibazione, pena la rinnovazione del dibattimento che comporta, di regola, la nuova acquisizione di prove già lentamente e faticosamente espletate. Sul punto, sarebbe utile conoscere l’opinione del C.S.M. e della A.N.M. e sarebbe interessante verificare la percentuale di incidenza dei rinvii dei processi determinati dal trasferimento dei magistrati giudicanti (verifica che darebbe, sicuramente, esiti davvero sorprendenti).
ANTONIO ESPOSITO
(Già Presidente di sezione della Corte di Cassazione)