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Il sogno di un uomo ridicolo di Fëdor Dostoevskij si dipana sul palcoscenico del Teatro Out Off di Milano

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Non è la prima volta che il regista Lorenzo Loris, molto attento ai rapporti tra letteratura e teatro, si cimenta con la trasposizione scenica di un’opera dostevskijana. Era già accaduto nel 2015 con Le notti bianche e ora, per la seconda volta quest’anno, ripropone all’Out Off Il sogno di un uomo ridicolo, nell’intensa interpretazione di Mario Sala.

Novella fantastica, scritta dal tormentato e visionario Dostoevskij intorno al 1876, a uno sguardo superficiale, Il sogno di un uomo ridicolo sembrerebbe un testo anacronistico e ‘buonista’ (diremmo oggi con questa parola così abusata). Trattasi, infatti, di una visione utopistica non tanto della storia dell’umanità e del suo futuro (per l’autore il progresso è, al contrario, ammantato di angoscia distopica), quanto di uno sguardo pieno di speranza e di fede nell’essere umano, nella sua capacità di riscatto dai più maleodoranti bassifondi della malvagità e della perversione che da sempre lo inquinano. L’uomo è intrinsecamente malato, marchiato per l’eternità con il ferro dell’infamia della caduta primordiale ma, per Dostoevskij, questo stesso uomo è capace di accedere a dimensioni di inaudita elevatezza spirituale e persino di gareggiare con gli angeli nel sublime, unicamente grazie alla forza dell’amore: visione questa così consona con il misticismo di matrice cristiano-ortodossa del titano della letteratura russa.

Chi è dunque l’uomo ridicolo? È sicuramente un essere privo di importanza, un marginale, un outsider, un incompreso del quale tutti ridono. E, cosa ancora più tremenda, l’uomo ridicolo è perfettamente consapevole della sua condizione ma non per questo è capace di porvi rimedio (diceva Cioran che la lucidità da sola non risolve alcunché). Perfettamente consapevole e rassegnato dinanzi alla sua condizione di paria, all’ostracismo l’uomo ridicolo non oppone la ribellione, bensì indifferenza e abulia, approdando alla conclusione che in fondo niente esisteva o aveva qualche importanza. In una delle sue insensate peregrinazioni per le vie della città, lo sguardo è attratto dalla luce di un piccolo astro che lo induce alla repentina decisione di attuare il suo proposito suicida quella notte stessa, senza ulteriori indugi. L’incontro con la bambina e il mancato atto di pietà nei suoi confronti rimescolano però le carte in tavola e distolgono l’uomo dal suo fatale piano. D’altronde, questa morbosa pietas è il segno distintivo di tutti i grandi scorticati e l’uomo ridicolo, venuto meno all’imperativo della misericordia, non riesce più a uccidersi prima di trovare il bandolo di quella complicata matassa esistenziale. Rientrato a casa, invece di uccidersi, comincia a sognare. Sogna di essersi sparato, si vede nella bara sigillata, nella fredda tomba da dove urla le sue imprecazioni e tutto il suo disprezzo contro un Creatore sordo e malvagio. Improvvisamente però il sepolcro viene spalancato e un essere oscuro lo porta in volo attraverso indefinite vastità cosmiche per approdare infine proprio su quell’astro che l’uomo aveva fissato nella notte del suo destino. Mentre si allontana dalla tanto vituperata Terra, l’uomo ridicolo si accorge però di amarla follemente perché ‘noi possiamo amare solo con dolore e tramite quello!’. Gli abitanti del nuovo pianeta sono esseri puri, perfetti, incontaminati dal peccato, liberi dai lacci del desiderio, dotati di un’erudizione naturale, scaturente da un rapporto di spontanea comunione con il creato (e non da improbabili pretese empirico-scientifiche), armoniosi, gioiosi, amorevoli – si lasciavano naturalmente venerare in nome di un amore totale, senza barriere e senza complicazioni. Sarà proprio l’uomo ridicolo a rompere l’armonia di questo mondo paradisiaco, appestandolo con tutte le tare e le malefatte della sua condizione decaduta: menzogna, malizia, crudeltà, gelosia, egoismo, competizione, vergogna.

Destatosi dal sonno, l’uomo è pervaso da una nuova trasfigurante consapevolezza: la felicità in terra è possibile ed è anzi, l’unico, immenso scopo dell’esistenza umana, nonostante gli errori e gli smarrimenti nei quali tutti possiamo incappare, dal saggio al derelitto. Il credo di questa nuova aurora di speranza è: ama il tuo prossimo come te stesso. Trattasi forse di un messaggio dai toni eccessivamente ottimistici (ridicoli?) – ci chiederemmo oggi, noi, abitanti di un mondo ancora più disilluso e contaminato dal male e dalla disperazione, rispetto all’epoca di un Dostoevskij. O forse, al contrario, ridicoli sono coloro che hanno rifiutato la grazia, sacrificandola sull’altare di un fantomatico progresso dalle tinte sempre più fosche e sempre più avverse a qualsiasi forma di pietas e di amore. L’interrogativo resta aperto anche se la storia ha dimostrato ampiamente che il più cinico e realistico homo homini lupus non è mai stato il viatico per una vita felice.

L’interpretazione di Mario Sala – l’uomo ridicolo – è fedele al testo di Dostoevskij anche se l’aspetto da clown (naso rosso, scarpe multicolori, cappellino bucato con fiorellino, maglia marinaresca) ci sembra una lettura che rischia, a tratti, di minimizzare l’intensità e la drammaticità del personaggio giocando troppo su un enfatizzato aspetto carnevalesco. Gli spettatori sono seduti intorno a lui in una soluzione scenografica dal grande impatto emotivo, che supera dunque la consueta separazione tra sala e scena. Durante il monologo, l’attore si siede sulle panche accanto al pubblico, al quale si rivolge direttamente, prendendolo a testimone. Le modulazioni vocali dell’attore, il suo muoversi tra due mondi, volteggiando sulle sedie vuote della platea, l’uso sapiente delle luci (il grande riflettore a simboleggiare il sole alieno) sono tutti elementi che concorrono all’impatto audiovisivo, oltre che emotivo della pièce.

Note di regia di Lorenzo Loris

Un uomo qualunque sa di non essere considerato come vorrebbe, di non essere creduto: non solo, di essere addirittura costantemente deriso per ciò che pensa e dice. Dove può, quest’uomo, trovare la forza di continuare a vivere? Come può entrare in relazione con gli altri? Nel suo cuore ferito e consapevole, la vita, a poco a poco, non può che spegnersi. Perché la sua esistenza abbia un senso è necessario che qualcuno gli risponda. È indispensabile che quella piccola fiammella che arde dentro di lui si alimenti attraverso uno scambio di attenzione, di affetto, di amore.

Ma se tutto ciò gli viene a mancare, niente vale più la pena.

All’improvviso accade però che quest’uomo, afflitto dall’inutilità di essere al mondo, riprenda forza e vigore attraverso un sogno e ritrovi la volontà e la gioia di vivere. Ha deciso infatti di trasmettere agli altri la propria straordinaria esperienza, basata su una verità incontrovertibile, tanto semplice ed evidente da non essere vista: l’amore salverà l’umanità e ciò che la circonda.

Questo è ciò che lo stravagante protagonista vuole comunicarci. E per questo viene scambiato per un pazzo. In fondo, il testo di Dostoevskij sta tutto qui.

La nostra scelta per rappresentarlo è stata radicale. Abbiamo prosciugato ogni aspetto predicatorio, cercando di far emergere oltre che un valore religioso più universale, anche una visione profeticamente apocalittica del mondo contemporaneo su cui poter riflettere, filtrata però attraverso il candore e la simpatia del protagonista.

Sulle tavole di un teatro in disarmo, in uno spazio svuotato, uno spazio destinato alla finzione in cui non c’è più niente da fingere, assistiamo al confronto fra uno strano individuo e le sue avventurose fantasie; una specie di clown, che vorrebbe svelare una verità importante a coloro che lo ascoltano ma non intendono prenderlo sul serio. Lui ne è cosciente e ne soffre. Ma in fondo non gli importa. Basta che il suo messaggio salvifico prima o poi raggiunga qualcuno e risvegli le anime morte delle persone che incontra.

Se ponessimo, per un attimo, l’attenzione sulle piccole meschinità quotidiane che tutti noi commettiamo nei confronti degli altri, allora capiremmo quante volte perdiamo l’occasione di tendere una mano a un nostro simile in difficoltà per trasmettergli anche il più semplice gesto d’amore.

L’egoismo, la corruzione, la malvagità non sono inevitabili, il Male non è insito nella natura umana; una nuova via è possibile, una nuova umanità, in pace con se stessa e con la Terra, può nascere e prosperare. Dostoevskij sceglie, per diffondere “la lieta novella”, un uomo insignificante, un emarginato: proprio dai più umili può iniziare il riscatto.


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