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Bambini migranti tenuti in gabbia. Storie di “occidentale” follia

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(…) Nessun fanciullo sia privato della libertà in maniera illegale o arbitraria. L’arresto, la detenzione o l’imprigionamento (…) devono essere effettuati in conformità con la legge, costituire un provvedimento di ultima risorsa e avere la durata più breve possibile.

Recita così l’art. 37, lett. b), della Convenzione sui diritti del fanciullo, che lo scorso 20 novembre ha celebrato i suoi 30 anni.

Nonostante il tenore della norma sia chiaro e inequivocabile, ogni anno, secondo i dati ONU, 1,5 milioni di bambini vengono privati della propria libertà per le ragioni più disparate.

Nell’ultimo decennio, la pratica risulta essere strettamente connessa ai flussi migratori.

Le politiche statali in materia di immigrazione tendono, infatti, a tutelare la sicurezza nazionale più dei diritti dei bambini. Di conseguenza, minori di ogni età si ritrovano trattenuti in centri di detenzione proprio in ragione del loro status di “migranti“.

In altre parole, questi bambini, nelle more delle procedure per l’espulsione ovvero per il riconoscimento della protezione internazionale, sono imprigionati in strutture a cui gli Stati attribuiscono i nomi più fantasiosi.

In Italia e Grecia sono chiamati “hotspot”. Negli Stati Uniti “centri residenziali” o “rifugi per la tenera età”. Addirittura, “guesthouse per stranieri” in Turchia e “centri per il soggiorno controllato degli stranieri” in Spagna. La Francia invece le definisce “zone di transito”.

La durata della detenzione varia in base alla legislazione domestica. Ma di solito dipende – sottolinea l’Unicef – dalla velocità e dall’efficienza con cui le competenti autorità svolgono gli iter di identificazione e registrazione dei migranti.

Eppure, i Comitati ONU per i diritti dell’infanzia (CRC) e per i lavoratori migranti (CMW), nel commento generale n. 4/2017, avevano ben chiarito che “il trattenimento di minori, sempre inteso in termini di extrema ratio, può essere applicato nel contesto della giustizia penale minorile ma non nei procedimenti legati all’immigrazione” perché “contrario al principio del miglior interesse del minore e del suo diritto allo sviluppo.

La necessità di tenere unita la famiglia” – proseguiva il documento – “non può mai costituire un valido motivo per privare un bambino della libertà” piuttosto “tale imperativo dovrebbe essere esteso anche al resto del nucleo familiare individuando soluzioni differenti dalle misure detentive”.

Ad oggi non esistono statistiche volte a chiarire la portata del fenomeno. Il Global Study delle Nazioni Unite “Children deprived of Liberty”, pubblicato lo scorso ottobre, stima una media di 330.000 bambini all’anno, in prevalenza maschi.

La pratica, contrariamente al sentire comune, non si verifica soltanto in posti sperduti del mondo. È infatti diffusa soprattutto in Occidente. E riguarda sia minori non accompagnati sia bambini che giungono ai confini della “terra promessa” con uno o entrambi i genitori.

In quest’ultimo caso, molte normative nazionali, al fine di camuffare vere e proprie detenzioni illegali, usano di proposito un linguaggio ambiguo. Per la legge canadese, ad esempio, i bambini vengono “alloggiati” in qualità di “ospiti” dei loro genitori nei centri per immigrati. Mentre, secondo la legislazione polacca o bulgara, “accompagnano” i propri familiari nelle strutture di accoglienza.

Può anche succedere che i piccoli migranti, arrivati sul territorio di uno Stato straniero in modo irregolare, vengano separati dai propri familiari e rinchiusi in strutture distinte.

In tal senso, Washington docet! Mancano dati pubblici sul numero di bambini vittime della politica di separazione familiare messa in atto ufficialmente dall’amministrazione Trump, al confine fra Stati Uniti e Messico, nel maggio 2018.

L’ultimo report del Dipartimento della salute e dei servizi umani precisa che “in seguito all’ordine della Corte distrettuale della California, sono stati individuati 2737 minori tuttavia “migliaia di altri bambini potrebbero essere stati separati durante il flusso migratorio del 2017″ e la loro identificazione risulta ancora difficile.

La “tolleranza zero” verso gli immigrati propria della presidenza Trump emerge in tutta la sua assurdità leggendo le dichiarazioni di alcuni funzionari governativi.

L’ufficiale di frontiera Brian Hastings interrogato dalla Commissione senatoriale per la sicurezza interna non è stato in grado di dire se Sofi – una bimba di 3 anni separata per 47 giorni dai familiari – potesse davvero costituire una minaccia per la sicurezza degli USA. Hastings si è limitato a rispondere “non conosco il background della bambina.

In effetti, a chi non verrebbe il dubbio che una creatura di appena 3 anni possa essere tanto pericolosa per una potenza mondiale.

Ma al di là della facile ironia, va rimarcata la sofferenza patita da questi bambini e il trattamento loro riservato all’interno dei centri per immigrati.

Viviamo in una gabbia di metallo in 20. Ci sono adolescenti e neonati. Ognuno ha una piccola coperta ma non basta per riscaldarsi”. “Ho fame (…). A volte mi sveglio nel bel mezzo della notte affamato ma non c’è abbastanza cibo qui“. E ancora, “sono negli Stati Uniti da 6 giorni. Non mi hanno fatto fare una doccia o lavare i denti. Non c’è sapone e i nostri vestiti sono proprio sporchi”. Queste sono alcune testimonianze – contenute in un ricorso contro il governo americano – di bambini trattenuti nei centri della polizia doganale.

È vero che gli Stati Uniti sono l’unico Paese al mondo a non aver ratificato la Convenzione sui diritti del fanciullo. È però anche vero che non occorre spingersi geograficamente così “lontano” per riscontrare come le politiche securitarie di stampo razzista portino a violazioni gravi dei diritti umani dei bambini migranti… Continua su vociglobali


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