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‘1969: quando gli operai hanno rovesciato il mondo’ Intervista a Paolo Ferrero

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A cinquant’anni dall’«autunno caldo», Paolo Ferrero riporta all’attenzione il grande rimosso dalla storia del Paese – nella convinzione che quel gigantesco processo sociale, politico e culturale di tipo rivoluzionario ci fornisca proprio oggi insegnamenti fondamentali nella lotta contro le destre e il liberismo.

(Intervista a cura di Claudio Paravati)

Quali differenza ravvedi tra il movimento del 1969 nel mondo, e invece il movimento in Italia?
Le due principali differenze sono in primo luogo l’estensione dei soggetti coinvolti e la durata delle lotte in Italia. In molti altri Paesi vi sono state lotte ma in nessun Paese queste hanno coinvolto la quasi totalità dei lavoratori dipendenti e lo hanno fatto per così tanti mesi. Questa durata ed estensione hanno determinato un salto di qualità: la dinamica del ’69 italiano è largamente fuoriuscita dai binari sindacali ed è giunta a mettere in discussione la nozione di sfruttamento in quanto tale. In Italia gli operai si sono rivoltati e hanno messo in discussione il loro essere trattati come merci. Per questo in Italia il ’69 è stato a tutti gli effetti un processo di rivoluzionamento dei rapporti sociali e per questo ha modificato così tanto il nostro Paese. In secondo luogo in Italia vi è stata una capacità di alcune organizzazioni sindacali di farsi attraversare dall’enorme domanda di partecipazione proveniente dalla lotta operaia e di trasformarsi radicalmente. La FIOM e la FIM in primo luogo hanno guidato un processo di riforma del sindacato italiano che ha dato luogo alla federazione unitaria e al sindacato dei consigli. Questo non è accaduto − in questa misura − in alcun altro paese ed ha segnato il “caso italiano” per tutto il decennio degli anni ’70. Il movimento operaio nel ’69 ha quindi sviluppato una istanza di cambiamento politico a tutto tondo e queste istanza è stata interpretata più che dalle forze politiche maggiori della sinistra, proprio da quel sindacato dei consigli nato nel contesto del conflitto operaio.

Quali sono per te le battaglie vinte, e quindi i risultati raggiunti; e ciò che invece è rimasto non affrontato, dimenticato, e ancora da affrontare?
Le battaglie vinte o correttamente impostate e sviluppate nella prima metà degli anni ’70 sono state molte: dalle lotte per la riduzione dei carichi di lavoro a quelle sulla nocività, sull’occupazione, per non fare che alcuni esempi. A partire dalla metà degli anni ’70 il perverso intreccio tra strategia del compromesso storico e terrorismo hanno prodotto un arretramento delle lotte operaie e l’inizio della messa in discussione delle conquiste operaie. Si è così arrivati alla sconfitta alla Fiat nell”80, alla privatizzazione della banca d’Italia nel 1981; e poi al taglio della scala mobile nel 1984. Da lì  in avanti le classi dominanti italiane, in piena sintonia con il centro destra e il centro sinistra, hanno attaccato e messo in discussione tutti  i risultati delle lotte degli anni ’70: dalla scala mobile alle pensioni ai diritti del lavoro e nel lavoro: la Bossi-Fini, il JOBS ACT, la legge Fornero, sono tanti tasselli di divisione e aumento dell sfruttamento del mondo del lavoro.

Cinquant’anni in cui è cambiato il mondo, in maniera davvero strutturale. Dedichi un intero capitolo, molto intenso, alle testimonianze. È un modo per consegnare all’oggi quelle memorie così preziose?
L’Italia è un paese senza una memoria condivisa. La mancata elaborazione del nostro ruolo nella vicenda dell’Olocausto determina il fatto che siamo l’unico paese d’Europa in cui i fascisti dichiarati sono accettati come forze politiche pienamente legittimate. In Francia gli anni del regime di Vichy non sono conteggiati come anni della repubblica nata dalla rivoluzione del 1789. Non così in Italia dove il regime fascista, pur frutto di violenze, stragi e plebisciti incostituzionali, viene a tutti gli effetti considerato parte integrante della storia patria dall’Unità d’Italia ad oggi. Così, anche grazie alle riabilitazioni postume dei repubblichini ed ad improvvidi provvedimenti relativi alla foibe − da taluni addirittura equiparate all’olocausto − oggi la storia del bel paese è scritta dai liberali e dagli epigoni dei fascisti: la memoria della sinistra e del movimento operaio, per anni egemone, è questi completamente cancellata. Frutto di questa riscrittura della storia è la cancellazione del ’69 operaio, letteralmente scomparso dalla coscienza della nazione. La ricostruzione di questa memoria mi è quindi parsa un contributo necessario al fine di dare strumenti per la lotta contro il revisionismo storico imperante. Accanto a questo contributo culturale, per battere l’ignoranza che anche coloro che pensano di sapere hanno sulle lotte operaie che hanno unificato l’Italia e portato un po’ di civiltà al nostro paese, il mio è un obiettivo politico. Il libro è rivolto ai giovani perché oggi i giovani vengono tenuti sottomessi educandoli all’impotenza, all’obbedienza perché “non c’è niente da fare”. Con questo libro voglio far vedere ai giovani che non sempre è stato così e anche anche le situazioni che paiono più chiuse ed immodificabili possono essere scardinate dalla lotta collettiva. Questo è il grande obiettivo di questo libro: provare a comunicare ai giovani che ribellarsi non solo è giusto ma è anche possibile.

Cosa diresti di dover lasciare indietro, appunto a quel passato, e da non ripetere oggi?
Di quel passato mi piacerebbe lasciare fuori tre cose. In primo luogo la strategia della tensione e cioè delle stragi da Piazza Fontana a Bologna, fatte dai fascisti ma pagate e volute dai servizi segreti e da una parte del mondo politico e imprenditoriale. La strategia della tensione fascista, protetta da apparati dello stato e parti significative della magistratura, ha lasciato dietro di sé una lunga scia di sangue che ha contribuito non poco alla crescita del delirio terrorista, che è la seconda cosa che metterei volentieri nella pattumiera della storia di quegli anni. La terza cosa che abbandonerei completamente è la politica del compromesso storico e dell’unità nazionale, con tutto il suo corollario di moderatismo e messa in discussione delle conquiste dei lavoratori. Purtroppo questa ispirazione alla subalternità nei confronti dei poteri forti e alla riduzione dei diritti dei lavoratori non solo prosegue ma si è potentemente rafforzata. Basti guardare a come il centro sinistra in questi decenni si sia reso protagonista della sistematica distruzione delle conquiste del movimento dei lavoratori e abbia aperto la strada alla demagogia fascistoide dei razzisti.

Cosa invece diresti del “’69 è domani”, come titola il capitolo conclusivo del libro?
Penso che in una situazione tutta diversa è possibile costruire un grande movimento di massa per il cambiamento sociale. Abbiamo un grande movimento mondiale delle donne contro la violenza, uno dei giovani contro il cambio climatico, abbiamo un papa che dice molte cose sensate, abbiamo un capitalismo che sta mostrando il suo volto distruttivo, non solo della dignità delle persone ma della natura e della democrazia. Mi pare vi siano tutte le condizioni − e la necessità − di smetterla di aspettare gli uomini della provvidenza, di smetterla di delegare e di ricominciare a lottare. Come stanno facendo i francesi: perché un nuovo movimento di massa come il ’69 è possibile, nel momento in cui il popolo scoprirà che è impotente da solo davanti alla televisione. È la frantumazione e l’atomizzazione sociale indotta che genera impotenza: la lotta comune crea forza e consapevolezza della stessa. Questo è stato il ’69, una gigantesca scoperta di quanto il popolo fosse forte e potesse trasformare il mondo. Per questo il ’69 è davanti a noi.

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