Il neoliberismo non serve, il populismo non basta e l’anarchia è di troppo: messa con le spalle al muro, la democrazia liberale può giungere a negare se stessa. Sono questi i termini del groviglio di contraddizioni da cui sboccano (inceppandovisi) le inedite, spesso gigantesche e incessanti proteste di piazza in corso da una punta all’altra del Sudamerica, dove da 5 anni le classi medie perdono potere d’acquisto e la povertà estrema cresce incessantemente (cfr. Cepal). Assistiamo a una stagione di tumulti liberatori, drammatici e a tutt’oggi irrisolti, ciascuno con le proprie specificità, che deflagrano come un campo minato per l’indignazione della massa dei cittadini di fronte alle troppe ingiustizie (in Cile e in Colombia); o per l’irrisolta contrapposizione razziale prima ancora che d’interessi economici tra la rianimata maggioranza india e la viziata minoranza bianca (in Bolivia ed Equador); o affondano nell’impasse tra istituzioni sequestrate e popolo diviso in estremismi contrapposti (in Venezuela).
“Con la democrazia si mangia, ci si cura e si va a scuola”, diceva il liberal-progressista Raul Alfonsin, rimpianto primo presidente costituzionale dell’Argentina liberata dalla più spietata dittatura militare. Era diventato il suo slogan preferito, in cui non cessava di credere. Lo ha ripetuto più volte anche a Franco Catucci e a me che negli anni Ottanta del secolo scorso andavamo spesso a intervistarlo per la RAI-TV alla Casa Rosada o alla residenza di Olivos. “Se non si sostanzia di diritti, la democrazia rappresentativa diventa un simulacro e nessuno ha più interesse a difenderla: può restare vuota, disabitata, deserta…e infestarsi di parassiti”, spiegava. Quella sua esperienza, che intendeva essere un’appassionata esortazione, non è certo estranea agli approfondimenti teorico-formali apportati poi al modello della più avanzata democrazia partecipativa da Guillermo O’Donnell e Dante Caputo (di Alfonsin, quest’ultimo è stato anche esemplare ministro degli Esteri), politologi che hanno fatto scuola anche tra gli accademici degli Stati Uniti, dove hanno lavorato a lungo.
Alla ricerca di quella sostanza senza cui la democrazia si avvicina alla pura convenzione elettorale, l’Argentina ha bocciato il governo neoliberista di Mauricio Macri (Gallup, lo classifica il peggior presidente del continente), ormai annegato nell’inflazione e nella recessione. Il centrosinistra di marca peronista appena eletto è sul punto di succedergli al potere in una prospettiva economicamente molto difficile. Né si presenta migliore quella dell’altro gigante del subcontinente, il Brasile, presieduto dall’ex militare di estrema destra Jair Bolsonaro, fervido seguace di quella fede evangelica da Vecchio Testamento che sottratte campagne e periferie brasiliane all’influenza cattolica è divenuta un decisivo fattore politico-elettorale, così come già negli Stati Uniti. Al compiere il primo anno al palazzo del Planalto, Bolsonaro deve fronteggiare la crescente protesta popolare -ora capeggiata dall’ex presidente Lula da Silva tornato provvisoriamente libero-contro la pesante svalutazione della moneta, il record della povertà che condivide col Venezuela (cfr. Cepal) e l’allarmante minaccia ecologica costituita dall’annunciato sfruttamento commerciale dell’Amazzonia.
I fronti più roventi della questione sudamericana restano nell’immediato Cile e Colombia, in quanto imprevisti ed esposti ai rischi maggiori; ma in non minor misura, sebbene per il momento sotto un controllo istituzionale garantito però in ultima istanza dalle Forze Armate, preoccupano Bolivia e Perù. A Lima, migliaia di persone protestano contro la sentenza della Corte Costituzionale che a stretta maggioranza ha liberato la figlia dell’ex presidente Alberto Fujimori (detenuto da anni per gravissimi delitti contro l’umanità). La deputata Keiko, leader della destra peruviana, era a sua volta in carcere da 13 mesi per corruzione e riciclaggio. La Corte ha ritenuto illegittima la sua detenzione, resta sotto processo ma a piede libero. I manifestanti ne temono la possibile fuga. Nel Perù, dunque, prevale ancora qualche principio di legge. Mentre un’ambigua pax militare, tenuta assieme a forza di espedienti tra grotteschi e surreali, sembra dominare la provvisorietà boliviana.
Al Congresso di La Paz, il Movimiento al Socialismo, il MAS di Evo Morales che era e rimane maggioranza, ha votato l’impegno a indire nuove elezioni entro 5 mesi imposto dalla minoranza di destra che ha costretto all’esilio il loro capo e presidente finora non ripudiato. A deciderlo, negando che costituisca qualcosa di più di un ulteriore ricorso al popolo sovrano, è in realtà la seconda e terza linea dirigente del movimento. Poiché la prima è praticamente in clandestinità per sottrarsi alle ricerche della polizia militare e soggetta con ogni probabilità a proscrizione dall’annunciata nuova legge elettorale in gestazione. “Sarà la saggezza del popolo a dirci cosa fare, noi dobbiamo evitare altri morti. Con Jeanine Añez che si è proclamata da sola Presidentessa, io neppure ci parlo: stiamo entrambe a Palacio Quemado, ma ciascuna nei propri uffici. A sera lei esce scortata dalle autoblindo, io torno a casa guidando la mia utilitaria. Il popolo ci vede tutte e due…”, dice Monica Copa, la nuova presidentessa della Camera dei deputati, esponente del MAS e come Morales di etnia aymara.
Questa tragedia (almeno venti i dimostranti uccisi), temporaneamente arrestata solo grazie alle mediazioni dell’ONU e della chiesa cattolica, ha una duplice trama: il mai sopito razzismo di gran parte della minoritaria popolazione bianca che pretende di controllare l’economia e dominare il paese (Fernando Camacho, avvocato e imprenditore, nemico irriducibile di Morales e candidato alle prossime elezioni presidenziali, brandisce una Bibbia come spada e da anni pretende di riconsacrare personalmente il palazzo presidenziale per esorcizzarne lo spirito indio di chi l’ha abitato finora; il cesarismo di Morales, rappresentato come un Bonaparte andino a partire dalle sue tendenze autoritarie, ma soprattutto dal proposito di superare la democrazia rappresentativa teorizzato dal suo vice e ideologo Alvaro Garcia Linera, un intellettuale bianco di origine ispanica che ora accompagna l’ex presidente nell’esilio messicano. Nessuno accusa Morales di arricchimento personale, gli straordinari successi economici e sociali dei suoi governi sono riconosciuti anche da giornali come l’Economist e il New York Times. Ciò che spiega la resistenza dei suoi seguaci.
Ha sorpreso invece (a Santiago lo ammettono anche un po’ troppo facilmente numerosi politici di governo e d’opposizione) che il Cile, paese orgogliosamente bianco, di estesa classe media professionale e commerciale, con una economia competitiva e un’ormai trentennale stabilità istituzionale, sia precipitato in episodi di violenza finora anche più persistenti di quelli della confinante Bolivia. Dalla prima esplosione di piazza il 18 ottobre scorso, seguita dalla storica manifestazione del milione e trecentomila, quasi non c’è stato giorno in cui non sia stato assaltato un supermercato, insultato per la strada un esponente politico di maggioranza o d’opposizione, attaccata una sede di partito, bruciata una stazione di servizio o saccheggiato un supermercato. Senza bisogno di coinvolgere Hegel (“…ciò che è reale è razionale”), se molti protagonisti e circostanze di questi ultimi mesi devono ancora essere ben spiegati, gli ultimi 30 anni del processo storico-sociale cileno non costituiscono un imperscrutabile mistero.
Non soltanto il Cile sceso in piazza, anche grandissima parte di quello rimasto a casa chiede che venga posta fine alle iniquità, alle lesioni dello stato di diritto, alle gravissime disuguaglianze sociali rimaste vigenti negli ordinamenti del paese. Quella recuperata all’indomani della dittatura militare è una democrazia dimezzata. A ridurla in questa condizione di minorità è la Costituzione imposta con le armi da Pinochet, prima di essere costretto a lasciare il potere. Non basta semplicemente correggerla, com’è già avvenuto. Tutti i sondaggi testimoniano che l’80/90 per cento dei cileni pretende di sostituirla con una nuova Carta Magna improntata all’elementare principio dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge. L’attuale capo dello stato, Sebastian Piñera, uno dei cinque uomini più ricchi del Cile e leader del partito di destra Renovacion Nacional, ne ha preso atto e potrà rendere storica la sua presidenza se riuscirà a conquistare la fiducia della piazza e a liberarsi dalle pressioni dei settori che si sentono minacciati dalla cancellazione dei propri privilegi, a cominciare dalle Forze Armate.
La scommessa del Cile e del suo Presidente sta nel riuscire a governare la lunga transizione fino alla formazione della Costituente, nel prossimo aprile, evitando scorciatoie illusorie, trappole di caserma, estremismi di strada e gimkane della politica. Il percorso è a dir poco accidentato, nondimeno evitarlo sarebbe peggio. L’accordo per la Costituente raggiunto tra i partiti (un paio di dozzine) ha punti che si prestano a diverse letture, tre o quattro gruppi (comunisti, radicali, cattolici di sinistra) non l’hanno ancora sottoscritto, la coalizione di destra al governo è spaccata tra favorevoli e contrari, una parte della piazza non si fida di nessuno e rifiuta di smobilitare nella convinzione che solo il suo massimo attivismo garantirà che la nuova Costituzione si faccia davvero. Se vorrà evitare un fallimento le cui conseguenze sono per tutti imprevedibili (ma comunque pessime), Piñera dovrà sapersi guadagnare almeno la fiducia personale d’ogni interlocutore, non ultimi gli insofferenti militari abituati al privilegio. Divenirne l’indispensabile notaio. Se ne avrà l’intelligenza e la grandezza d’animo necessari sarà un altro padre della patria.
Il presidente della Colombia, Ivan Duque, potrebbe costruirsi un’analoga opportunità. Da tempo mostra di aver compreso che il paese già politicamente polarizzato sta entrando in una congiuntura economica di stagnazione e per fare gli interventi necessari e urgenti deve liberarsi della pesante tutela del suo padrino politico, l’ex capo di stato Alvaro Uribe, grande latifondista, potente leader dell’estrema destra e notoriamente compromesso con le bande armate degli agrari responsabili di numerosi eccidi di contadini. Uribe è stato anche incriminato dalla magistratura per reati connessi all’appropriazione indebita di vaste estensioni di terreni e altri beni appartenenti a persone costrette ad abbandonarli per sfuggire alla guerra tra esercito, guerriglie rivoluzionarie e milizie private che per 50 anni ha devastato la Colombia e favorito il narcotraffico. E’ il suo ex ministro della Difesa, Juan Manuel Santos, che succedutogli alla Presidenza ha ottenuto il trattato di pace con le Fuerzas Armadas Revolucionarias de Colombia (FARC) in cui è prevista la restituzione dei beni perduti dai profughi. Perciò Uribe combatte il suo ex ministro e il Trattato.
Ma nel tentativo di prenderne qualche distanza evitando tuttavia lo scontro, Duque ha finora seguito la tattica di fare un passo avanti e uno indietro. Inducendo Uribe a diffidare della sua fedeltà, senza procurarsi alcun vantaggio presso l’opposizione, resa molto più forte e autorevole dagli scioperi e dalle proteste di massa degli ultimi giorni. Anzi, di fronte alle centinaia di migliaia di manifestanti che hanno occupato la capitale e gli altri grandi centri urbani da sempre favorevoli alla sinistra democratica, il Presidente ha replicato la sua tendenza a disfare con una mano quanto appena fatto con l’altra, spingendo i militari in strada dopo aver sollecitato un dialogo con i manifestanti. Così rischiando di precludersi ogni interlocutore. Tutti i sondaggi concludono che la sua credibilità è scesa a livelli minimi. Ciò che lo rende più debole anche di fronte a Uribe, che per farsi spazio sta rispondendo alle proteste contro il governo sostenuto dal suo partito con una campagna xenofoba, tesa a colpevolizzare d’ogni problema il milione e oltre di venezuelani che hanno cercato rifugio in Colombia.
Per un paese che non riesce a consolidare la pace interna, insidiata da oltre 200 assassini di sindacalisti, attivisti sociali, volontari di ONG nel solo 2019, dove le fosse comuni nascondono ancora molte centinaia di caduti nelle repressioni indiscriminate dell’esercito, nelle imboscate delle guerriglie e dei paramilitari, l’indebolimento del governo di Duque, la sua incapacità a circoscrivere gli scontri politici per imbrigliarne gli odi, costituiscono un estremo pericolo. Ne risultano rafforzati gli interessi meno dicibili, le tendenze più spregiudicate. Nell’attacco agli immigrati venezuelani, che peraltro il semplice buon senso esclude dalle schiere dei sostenitori di Maduro o anche di Chavez, non c’è solo la cattiva memoria del recente passato in cui erano i colombiani a emigrare numerosissimi in Venezuela. L’obiettivo è tornare alla guerra per emarginare ogni sforzo di imporre un regime di legalità. Per crearne le condizioni la propaganda non si arresta di fronte all’artificiosa colpevolizzazione dello straniero, alla cui categoria sono destinati a essere associati quanti a qualsiasi titolo si oppongono a questa prospettiva di caccia all’uomo.