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Letizia Battaglia fra poesia dello sguardo e politica. ‘Shooting the mafia’ di Kim Longinotto al Festival Lo schermo dell’arte

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Firenze – Loro non cambiano gridava nel 1992 Rosaria Schifani, moglie di uno degli agenti di scorta uccisi nell’attentato a Giovanni Falcone. Nel brano di repertorio inserito in Shooting the mafia possiamo risentirne voce, diventata un filo di metallo, prima che il dolore e uno sdegno indicibile la trascinino svenuta sul pavimento della chiesa dove si stanno celebrando i rituali ‘funerali di Stato’. Quello Stato che, rinunciando a ogni sfumatura enfatica, lo stesso Falcone definiva una delle molte espressioni della società e che lo aveva tradito, diminuendo gli elementi della scorta e muovendosi in modo opaco fra connivenze con i boss mafiosi, primo fra tutti Totò Riina, e campagne denigratorie dei media contro il magistrato, accusato quotidianamente di sovraesposizione narcisistica. Dopo l’assassinio di Falcone la vendetta di Riina, ancora latitante, per l’ergastolo cui era stato condannato alla fine del maxiprocesso di Palermo arrivò a colpire anche Paolo Borsellino, scosso dalla morte del vecchio amico e lasciato solo dalla politica. Borsellino camminava avanti e indietro, avanti e indietro senza pace, cercando di riordinare i pensieri e ritrovare la rabbia per continuare l’opera di Falcone. Il suo corpo venne fatto a pezzi dai 90 chilogrammi di esplosivo nascosti in una 126 parcheggiata davanti al palazzo di via D’Amelio dove abitavano la madre e la sorella del magistrato. Si vedeva solo la pancia – racconta Letizia Battaglia – l’auto era volata su un albero, non ho potuto fotografarlo, non ce l’ho fatta. E oggi quelle foto non scattate, a Falcone e a Borsellino, le mancano, le pesano come una mancanza di rispetto, perché il rispetto e il coraggio devono coincidere con la testimonianza.

Ma tutte le altre foto, quelle che hanno raccontato e continuano a raccontare Palermo a partire dagli anni ’70, sono Storia. Le immagini e le sequenze di Shooting the mafia – foto, filmati di repertorio, brani di film, il lungo emozionante racconto di sé in cui Letizia Battaglia mette a nudo i pensieri più intimi – esplodono nello stomaco: materiche, viscerali, austere, a volte felici. I volti premoderni, le anziane sedute davanti alla porta di casa, le donne picchiate dai mariti sul marciapiede, i bambini che tuffano la testa nell’acqua di una fontana, la testimone che non ha visto l’omicidio perché, malata di nervi, si trovava a letto, l’altra convinta che stessero sparando agli uccelli, gli edifici martoriati dal degrado, la fatiscenza che s’ingoia una città intera, la miseria da corruzione pubblica, la mattanza che giorno dopo giorno insanguina Palermo (fino a mille morti l’anno). La mafia è ovunque ci siano soldi, si impadronisce del mercato del pesce e, per mezzo di mattatoi illegali, di quello della carne. Riesce a insinuarsi persino nei cimiteri, e se i parenti di un defunto non possono continuare a pagare il pizzo le ossa vengono esumate e buttate ai cani per far posto a qualcun altro.

In frammenti esemplari la Battaglia coagula un dolore illimitato e antiretorico: crani e vetri d’auto spaccati dalle pallottole, il sangue che sgorga dai corpi formando rivoli e pozze scure, le donne straziate dal lutto. L’indignazione di Letizia Battaglia, la sua repulsione sgomenta, colpisce sia i politici costretti a fuggire dal funerale di Paolo Borsellino inseguiti dalle urla di una cittadinanza esasperata che non accetta più la mafia come destino ineludibile, sia la volgarità sciatta dei boss, ominicchi squallidi e crudeli che davanti ai giudici si definiscono ‘poveri agricoltori’. Tutti talmente miseri da vivere come sepolti vivi, nasconti in bunker spesso angusti, senza godersi il denaro accumulato, portando avanti un’esistenza finalizzata al poterecumannari è megghiu ca futtiri.

Strettamente connessa alle vicende pubbliche e all’evoluzione del costume in Italia si dipana la storia personale di Letizia. Prende forma un ritratto femminile potente, una signora indomabile di 84 anni che sente nella testa un crescente fermento civile e creativo e non teme neppure la fine. Anticonformista e determinata in una società dominata dagli uomini, passa da un padre padrone che le impedisce di uscire da sola a un marito padrone che non le permette di continuare gli studi e la spedisce in una clinica svizzera per malati di nervi quando manifesta l’intenzione di lasciarlo. Ma l’inquietudine di Letizia cresce, e comincia a frequentare altri uomini. Incontrarne uno, due, cinquanta significa scegliere, esistere, vivere, anche se è convinta che l’amore non esista, che sia una bugia, perché se fosse vero non finirebbe. Il suo è il desiderio di un’intera generazione di donne: manifestare la propria sensualità con naturalezza e umorismo, come Silvana Mangano nell’ipnotico mambo del 1954 (in Anna di Alberto Lattuada). Il vero daemon tuttavia è la pulsione costruttiva ed espressiva, che riesce a trovare uno sbocco con l’ingresso nel quotidiano L’Ora di Palermo, prima come giornalista poi, finalmente, come fotoreporter. E’ la scoperta di una vocazione, della poesia dello sguardo che si fa politica e impegno, innestandosi nella dedizione inflessibile al cambiamento antropologico della Sicilia. Una biografia imperdibile.


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