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Depistaggi e verità nascoste  da 25 anni. L’assassinio di Ilaria e Miran

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«È un libro disturbante, se pensate di vivere in un paese normale non leggetelo, viviamo in un paese che da venticinque anni non è stato capace di dare giustizia a Ilaria e Miran»: sono le prime parole pronunciate da Barbara Schiavulli (giornalista e inviata di guerra) a Ronchi dei Legionari per presentare Luigi Grimaldi,  autore insieme a Luciano Scalettari di “Ilaria Alpi e Miran Hrovatin. Depistaggi e verità nascoste a 25 anni dalla morte” (round robin editore). La parola depistaggio verrà pronunciata per la prima volta dai magistrati del Tribunale di Perugia e mai prima da altri che indagavano sulla loro morte. Spariscono certificati medici, le video cassette dei servizi realizzate in Somalia (poi ricomparse ma prive del girato compromettente), testimonianze rivelatesi infondate. «Una serie di morti collegate alla vicenda di Ilaria e Miran – ha spiegato Barbara Schiavulli – e questo fa pensare cosa ci sia dietro».

Il tentativo di celare la verità verrà sempre impedito da parte di giornalisti a cui la “verità” ufficiale non convince e dai genitori di Ilaria, perfino da parte di agenti della Digos di Udine a cui poi verrà tolta l’indagine. La presentazione del libro è avvenuta il 26 ottobre scorso nell’Auditorium della cittadina friulana, organizzata dall’Associazione “Leali delle notizie”per la “Giornata della libertà di stampa e di espressione” (presidente Luigi Perrino) con il patrocinio del Comune di Ronchi dei Legionari. Il giornalista Luigi Grimaldi ha dialogato con Barbara Schiavulli in un dibattito ad alto tasso emotivo, la cui storia del depistaggio, definito da chi ha seguito questa vicenda «il duplice omicidio di Mogadiscio diventato un delitto di Stato». Non perché deciso a tavolino dai vertici politici o istituzionali del nostro Paese. No, la teoria del “grande burattinaio” è sempre suggestiva, ma quasi mai vera.

Tutti gli elementi indicano che l’eliminazione di Ilaria e Miran è stata decisa in fretta, e non tanto  sulla base di ciò che Ilaria Alpi sapeva per certo, quanto su ciò che avrebbe potuto acquisire in quei giorni somali e ancora da scoprire dopo il rientro in Italia, date le ottime fonti che dimostrava di avere e le scoperte già effettuate. Viene probabilmente decisa in Somalia, velocemente, da figure per lo più somale ma molto «italiane per contiguità di rapporti, affari, relazioni di malaffare».  Ogni pagina è il risultato di un’analisi dei documenti e delle prove acquisite con assoluta precisione da Luigi Grimaldi e Luciano Scalettari (con i contributi di Marco Birolini, Francesco Cavalli, Max Giannantoni, Mariangela Gritta Grainer, Alessandro Rocca, Roberto Scardova, Maurizio Torrealta), sconvolgente  per la verità dei fatti confutata da prove e testimonianze mai utilizzate nelle inchieste della magistratura.

L’unica buona notizia è quella del gip di Roma, Andrea Fanelli, che ha rigettato la richiesta di archiviazione disponendo nuove indagini accogliendo l’istanza presentata dall’Ordine dei Giornalisti, Fnsi e Usigrai sostenuti dall’avvocato Giulio Vasaturo.  «Mi occupo di Ilaria e Miran dal primo giorno in cui sono stati uccisi  (il 20 marzo 1994, ndr) e nei 240 mila documenti desecretati, ognuno dei quali è composto da 500/1000 pagine, c’è scritto tutta la verità mai transitata dalle carte alla magistratura e alla giustizia – ha spiegato Luigi Grimaldi rispondendo alle domande di Barbara Schiavulli –   e se non si riesce a capire quanto è accaduto non si può comprendere il concetto di sistema che stava alla base . Ilaria e Miran avevano messo in crisi un sistema internazionale di rapporti  senza l’intenzione di nascondersi ma  con la volontà  di celare le compenetrazioni tra di loro. Una cappa protettiva per impedire il  normale svolgimento di una democrazia». Nell’introduzione delle 238 pagine è spiegata la necessità inderogabile di raccontare una tragedia mai sopita e indegna di uno stato democratico: «Nell’immaginario collettivo forse i giornalisti investigativi sono visti come freddi e insensibili analizzatori di carte e testimonianze. Ma non è così. È la solidarietà umana, la sete di giustizia, la rabbia nel vedere occultamenti, reticenze e depistaggi che spinge a “non mollare”, a volere ostinatamente che si sveli il chi e il perché dell’agguato di Mogadiscio ».

Lo si deve a Luciana e Giorgio, i genitori di Ilaria, deceduti senza aver saputo la verità. Lo si deve alla moglie di Miran e a suo figlio cresciuto senza il padre. «La costante di questa vicenda, fin dal primo momento dell’omicidio (dopo 17 anni è stato liberato per ingiusta detenzione Hashi Omar Hassan, risarcito con oltre tre milioni di euro, ndr), e ancor prima, è la sistematica deviazione dolosa e fraudolenta della verità», a dimostrazione del «filo rosso» che viene tracciato da chi ha scritto il libro. «Esiste in filo conduttore dove è presente la continuità e la contiguità (anche delle stesse persone) tra il delitto Moro, la trattativa Stato Mafia, le persone che guidano i traffici in Somalia e finanziano i conflitti. Ilari Alpi era venuta a conoscenza di una vicenda talmente grave da determinarne la sua morte. «Faceva troppe domande e fin dal primo viaggio stava approfondendo la questione della mala cooperazione e dei traffici. Viene a sapere (o le viene suggerito) che c’era una nave della Shifco sequestrata a Bosaso da presunti pirati somali. Non lo sa nessuno. Ne sono a conoscenza solo i servizi segreti e la Farnesina. Lei va a Bosaso per sapere della nave che – le è stato detto – ha a bordo armi/e o rifiuti tossici/radioattivi. Le domande che fa a una delle ultime persone che intervista, il sultano di Bosaso Abdullahi Mussa Bogor ( e forse ad altri, ma non lo sappiamo) decretano di fatto la sua morte».

Un peschereccio che faceva parte della flotta di sei navi donate dalla Cooperazione italiana alla Somalia, utilizzate poi per imbarcare armi e rifiuti tossici anche pericolosi. Luigi Grimaldi nel corso della presentazione del libro racconta un fatto inquietante: «Ilaria sapeva del suo destino e fece registrare a Miran una sua dichiarazione che spiega a cosa stava andando incontro.  L’omicidio è un’esecuzione mafiosa mirata a loro due con un solo colpo in testa. I mandanti dell’omicidio hanno bisogno di qualche giorno di tempo per organizzare l’agguato, che non può avvenire a Bosaso perché rischierebbe si svelare tutto: le viene quindi fatto perdere il volo prenotato per il 16 marzo e Ilaria viene accolta a Mogadiscio da persone che presumibilmente fanno parte del complotto. Ilaria e Miran rimangono quattro giorni in più, imprevisti, nella lontana città del Nordest della Somalia. Intanto, a Mogadiscio, si prepara la trappola».  Sono sei i capitoli che elencano minuziosamente le tragiche vicende vissute dai due giornalisti della Rai, inviati di guerra, “colpevoli” di svolgere il loro lavoro senza timore di perdere la vita. Parla delle «incongruenze di un’inchiesta giudiziaria “che non s’ha da fare” (…) », a partire dall’inchiesta della Procura di Roma affidata ad Andrea De Gasperis, all’avocazione successiva da parte del procuratore Salvatore Vecchione, togliendo l’indagine a De Gasperis e al collega magistrato Giuseppe Pititto.

La cronologia dei fatti accaduti dimostra come sia sistematica la volontà di depistare le indagini e impedire l’accertamento della verità. Tra le tante “incongruenze” raccolte nel libro, viene segnalata la prima perizia balistica del 16 gennaio del 1995 effettuata dal dottor Martino Farneti in cui si parla di un «colpo sparato da un fucile: il referto afferma che a uccidere Ilaria potrebbe essere stato un colpo di kalashnikov sparato a distanza. I due accertamenti,  l’esame medico esterno del dottor Sacchetti e la perizia balistica del dottor Farneti, sono in aperta contraddizione, ciononostante non viene disposta alcuna autopsia». Solo il 4 maggio del 1996 il «dottor Pititto dispone la riesumazione della salma di Ilaria Alpi, ordina (per la prima volta) un’autopsia e nomina dei consulenti medici e balistici. Una seconda perizia balistica stabilisce che il colpo che ha raggiunto Ilaria Alpi fu sparato da lontano. L’esito è contestato dai periti della famiglia Alpi. Il magistrato ordina allora una superperizia, effettuata da un collegio di consulenti tecnici: le conclusioni, che saranno consegnate nel gennaio 1998 al magistrato – non più Pititto, che l’avevano disposta, ma il suo successore alla guida dell’inchiesta Franco Ionta – stabiliscono che il colpo che ha raggiunto Ilaria è stato sparato a bruciapelo». Quel «disturbante» anticipato all’inizio della presentazione del libro a Ronchi dei Legionari si trasforma sempre più una reazione di fastidio; appare evidente l’azione di molti (apparati dello Stato, forze militari, poteri occulti) nell’impedire la ricerca degli assassinare Ilaria e Miran. Viene citata  Gladio (la struttura “Stay Behind” chiamata, appunto, Gladio) e Luciano Scalettari racconta come Mogadiscio fosse una dependance di Gladio e del ruolo avuto nella vicenda Ilaria Alpi e Miran Hrovatin.

Nel 1997 il «Secondo grande depistaggio: arrestate “Faudo”»: questo il titolo del terzo capitolo in cui si spiega il depistaggio con l’arresto di Hashi Omar Hassan che verrà condannato definitivamente nel 2002 a ventisei anni di carcere. Solo nel 2016 con la revisione del processo da parte del Tribunale di Perugia verrà riconosciuto innocente. Testimoni, militari che indagavano sulla morte dei due giornalisti della Rai come il capitano di vascello Natale De Grazia,  Sid Ali Abdi lo stesso autista di Ilaria e Miran, a loro volta perderanno la vita in circostanza misteriose. La conversazione di Luigi Grimaldi si fa sempre più avvincente con una narrazione che appartiene a chi sa condurre un’inchiesta giornalistica con la responsabilità etica e deontologica necessaria per denunciare e affermare come sia indispensabile cercare di scoprire la verità: «i giornalisti spesso abdicano al ruolo di testimoni mentre dovrebbero essere gli occhi e le orecchie del lettore/spettatore. Una categoria capace di abdicare per accontentare i loro editori. Il giornalismo investigativo necessità di alta professionalità e Ilaria e Miran sono un esempio da ricordare». Il “noi non archiviamo” pronunciato in molte occasioni resta valido ancora.


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