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Arafat e le ragioni della Palestina

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Probabilmente non sapremo mai come è morto Yasser Arafat, scomparso quindici anni fa all’età di settantacinque anni, al termine di un’esistenza spesa interamente in nome del popolo palestinese.
Non sapremo mai se fosse davvero malato o se sia stato avvelenato; fatto sta che la sua fine ha arrecato solo guai, lutti e sofferenze all’intera regione. Piaccia o meno, infatti, il combattente Arafat, con la sua kefiah, il suo coraggio, la sua passione politica e civile e la sua capacità di essere, al contempo, guida e punto di riferimento di un intero popolo, costituiva un fattore di equilibrio che, una volta venuto meno, ha consegnato la Palestina all’estremismo e condannato Israele a una drammatica insicurezza.

Non è in dubbio, almeno per chi scrive, il sacrosanto diritto di Israele a esistere e a vivere in pace. Non sono in dubbio i diritti dei suoi abitanti e neanche quelli dei suoi governi, a patto che questi ultimi non siano ispirati dai princìpi disumani che hanno caratterizzato l’operato di Sharon e, peggio ancora, di Netanyahu, ossia di un aperto fautore dello scontro, della ferocia, del colonialismo, dell’espansione territoriale indiscriminata e della barbarie. Una strategia sbagliata, controproducente, pericolosa e nemica della pace, al punto che non è eccessivo definire il nostro eroe il principale nemico dello Stato di Israele e del suo diritto a esistere.

Ciò che servirebbe, in quella terra martoriata, è una politica alla Rabin, possibile solo grazie alla presenza del leader dell’OLP sull’altro versante e a un’amministrazione americana guidata da un uomo con molti difetti ma anche altrettanto buonsenso quale fu, sicuramente, Clinton.
Ci vorrebbe una riproposizione degli accordi di Oslo e del dialogo a Camp David fra Arafat e il premier israeliano Ehud Barak, sette anni dopo, quando Rabin già non c’era più da cinque anni, vittima della mano assassina di un fondamentalista israeliano, ma c’era ancora la precisa volontà di provare a costruire un terreno comune d’intesa. Una scena impensabile oggi, al tempo dello scontro aperto, del trasferimento dell’ambasciata israeliana nella città santa di Gerusalemme, del trumpismo che soffia sul fuoco della violenza e del desiderio, neanche troppo celato, di sradicare un intero popolo e ridurlo alla miseria assoluta.

Arafat, piaccia o non piaccia, è stato un protagonista straordinario della vita politica mediorientale, capace di arginare la furia di Hamas e l’estremismo di chi sostiene che Israele debba essere cancellato dalle carte geografiche, il che rivela la pochezza di quanti lo hanno contrastato per decenni e la grandezza visionaria di un uomo che, al contrario, per un periodo considerevole ha contrastato la ferocia diffusasi non appena è venuta meno la sua autorevolezza.
La posizione della comunità internazionale circa la questione israelo-palestinese dovrebbe essere quella più volte espressa dall’ex presidente americano Carter: due popoli-due stati, con pari diritti ed eguale dignità. Il venire meno di una personalità come Arafat ha complicato non poco il percorso verso la pace, reso pressoché impossibile il dialogo fra le parti e consegnato un conflitto pluridecennale alla logica perversa dello scontro permanente e senza esclusione di colpi.

E così abbiamo assistito ad autentiche stragi nella Striscia di Gaza, all’avanzata, su entrambi i fronti, di forme mostruose  di fondamentalismo e alla destabilizzazione di un’area del mondo che è sempre stata una polveriera e la cui esplosione potrebbe innescare una nuova, spaventosa guerra mondiale. Senza contare i danni provocati dall’ascesa al potere di personaggi che hanno finito col mettere in discussione l’esistenza stessa del concetto di umanità.
Yasser Arafat, quindici anni dopo. Le ragioni per cui ha vissutto, lottato e, probabilmente, è morto sono ancora tutte lì, al pari degli interrogativi su un’uscita di scena che non ha giovato a nessuno, se non ai venditori di armi e ai terroristi.

P.S. Dedico quest’articolo ad Alberto Sed, scomparso all’età di novant’anni dopo aver dedicato l’ultima parte della sua vita a ricordare ciò che fu la Shoah e ciò che significò per la sua famiglia. Un testimone del tempo e dell’abisso di cui, in questa fetida stagione di revisionismo storico e riemergente nazismo, avvertiremo più che mai la mancanza.


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