di Fabrizio Zanca
“Nino, non aver paura di tirare un calcio di rigore…” è il refrain di una canzone di De Gregori che m’ha fatto capire che solo chi ha il coraggio di tirarli, ‘sti calci di rigore, può sbagliarli, assumendosene tutte le responsabilità e le conseguenze. Insomma, bisogna avere coraggio per fare e ancora più coraggio di accollarmi lo sbaglio quando si sbaglia, la gloria quando si fa gol. E le persone che sono in grado di fare (e magari di sbagliare) sono poche, si contano sulle punta di due mani, sono quelle che fanno la storia, a volte la propria storia personale.
Una di queste era mio zio Cesare. L’uomo che sapeva fare, che sapeva prendere la gente per il loro verso, che raramente sbagliava ma se lo faceva se ne assumeva le responsabilità fino alla fine, che sapeva cioè essere coerente col proprio modo di pensare la vita, la professione e le persone.
Oggi, a quarant’anni dalla sua morte, mi trovo a rivederne i gesti quotidiani e quelli ufficiali davanti le telecamere, i sorrisi luminosi di una persona sicura di sé e quelli da gatto mammone che si divertiva per celia a fare l’orco coi bambini, ma che rimaneva comunque sempre candido e trasparente.
A metà estate, con la complicità di una notte serena è illuminata dalle stelle, mi piacerebbe che una di quelle cadenti, restasse in cielo più a lungo per lasciarmi esprimere un semplice desiderio: ritornare indietro ai miei dodici anni (l’età è approssimativa, ma poco importa), a quella volta in cui lo zio Cesare mi prese con sé a bordo della sua macchina di servizio, mi pare fosse una Alfa Romeo, e mi portò in giro fino a Mondello, dove credo la zia ‘Na lo aspettava.
Zia ‘Na era la zia Giovanna, quella donna straordinaria che, quando la chiamai da Parigi dopo l’uccisione di zio Cesare e le chiesi se avesse voluto che tornassi per i funerali, mi rispose che avrebbe voluto tantissimo solo non vedere i miei occhi lucidi, quasi pregandomi di rimanere al largo da quella barbarie.
Dunque io e zio Cesare eravamo in macchina, noi dietro, il maresciallo Mancuso alla guida, e andavamo verso Mondello in una giornata di mezza estate per passare una giornata al mare. Mi raccontava, per strada, della sua stanza in tribunale, quella stanza a piano terra piena di carte e con una immancabile macchina da scrivere, (la stessa che ritrovai sulla sua scrivania a casa e che ebbi come ultimo suo ricordo), piena di gagliardetti dei Carabinieri o della Polizia, di foto, ritratti, faldoni e carpette, piena di quella sua vita così intensa e così pericolosa che il solo pensarci metteva un po’ di paura, quasi fosse l’anticamera della giustizia quella vera, con la G maiuscola.
Mi raccontava che in quella stanza erano passate persone famose che venivano a trovarlo soprattutto dopo la vicenda del ritrovamento delle bambine di Marsala, magari facendogli perdere tempo che avrebbe voluto dedicare a qualche altro caso più impellente, ma erano visite alle quali non sapeva dire di no perché, seppure gli facessero perdere tempo, lo distraevano e rilassavano. Aveva tempo di fumarsi la sua ennesima sigaretta sorseggiando un whisky (che immagino avesse sempre a portata di mano, magari dentro un cassetto, o forse se lo portava in tasca in una delle sue centomila bottigliette colorate formato mignon di liquori di cui faceva collezione).
Lo zio Cesare era per me un signore a volte burbero e severo, mi ammoniva, mi prendeva in giro, mi faceva piccole angherie fanciullesche, e mi trattava al tempo stesso da bambino grande ed io ne avevo non dico paura, ma soggezione, si.
Io mi chiedevo perché mai un uomo della sua stazza (me lo ricordo come un gigante forzuto, dietro a un paio di occhiali fumé, con mani enormi in grado di stritolarti ma che non avrebbe mai alzato contro nessuno) si metteva a parlare di storie così complicate con un ragazzino adolescente col quale, mi sembrava, avesse poca confidenza e che non era in grado di articolare una risposta sensata alle sue argomentazioni.
Poi, ad un tratto, senza alcuna premeditazione, gettò lì, nel bel mezzo della Favorita, una domanda che mi sembrava covasse da un po’ di tempo, come se non riuscisse a trovare un modo per farmela. Insomma, ad un certo punto, mi chiese, a bruciapelo: “Ma tu, non hai paura di venire in macchina da solo con me?”
“Perché?” Risposi di getto, senza pensarci
“Ma, che so, se mi capitasse qualcosa, se ci fosse un incidente…”
Capii anni dopo a che tipo di incidente lui facesse riferimento e ripensai anche alla stupidità da dodicenne con la quale risposi al suo dubbio:
“Ma tu sei forte, a te non possono capitare gli incidenti…” risposta che mi dà, oggi per allora, il senso della sua fragilità nascosta dietro un sorriso che diceva e non diceva, dentro a un’anima aperta più verso gli altri che a se stesso, a cui pensava solo incidentalmente, non curandosi del fatto che potesse avere “un incidente”, ma preoccupandosi soprattutto che in quell’incidente potesse rimanere coinvolto qualcun altro, un suo caro, una persona amica.
“Hai ragione”, mi rispose, “a me gli incidenti non capitano, e poi non bisogna averne paura…” e mi guardò lasciandosi dietro una risata roboante, quella stessa che rivedevo a Natale a casa della nonna quando organizzava il mercante in fiera per i nipoti o nel giardino della zia Mimmi a Pasqua per la cerca delle uova.
Questo suo amabile modo di fare con tutti, lo rivedo nelle tante cose che della sua vita che a poco a poco vengono a galla, con puntualità: la casa di Scillato col suo aranceto, lo studio di casa a Palermo tappezzato di disegni d’autore e riconoscimenti d’ogni genere, la curiosa sensazione nel ritrovare blocchetti di carta e carpettine in cartoncino intestate al Senato della Repubblica, i libri di storia che affollavano disordinatamente le sue librerie, le spade appese all’ingresso di casa che intimorivano e ammonivano, le persone che lo circondavano, zia ‘Na, gli amici del bridge, quelli della Vela, quelli del Tribunale, e poi il curioso straniamento di ritornare in quella casa e non trovarlo più.
A volte – e me ne ricordo soprattutto dopo il caso di Marsala – appariva in tv per rilasciare qualche breve intervista e allora era una festa; “venite c’è lo zio Cesare in tv” urlava mamma dal suo salottino e noi figli a precipitarci per ascoltare parole che magari non capivamo in pieno, ma che ci sparavano addosso quell’aura di notorietà che ci faceva grandi e delle quali il giorno dopo avremmo potuto vantarci con i compagni di scuola.
Mi raccontava zia ‘Na, che una volta, lui e Lenin Mancuso, erano andati da soli a Corleone, a snidare Luciano Liggio e camminavano, quasi fosse una sorta di spaghetti western, nella strada principale del paese, al centro della carreggiata che era assolutamente deserta, mentre da dietro gli scuri probabilmente le donne scrutavano l’andatura di quello strano personaggio e gli uomini fingevano indifferenza e insofferenza. Immagino quella scena come un frame di un film mai girato da Tarantino, in un pomeriggio afoso e col solo sottofondo del frinire delle cicale, mentre due uomini, di cui uno con la giacca appoggiata sulla spalla e tenuta da un solo dito, attraversano il centro senza che si muova una mosca. Dal fondo della scena si vede la strada assolata tremolante di vapore acqueo e poi, come da un orizzonte prossimo, due figure sembrano apparire come sorge il sole, prima le teste, poi il resto del corpo. Uno ha una sigaretta fumante fra le labbra, l’altro è più guardingo, ma spavaldo anch’esso; si fermano in un bar, fanno qualche domanda a cui non ricevono risposta e proseguono oltre, certi che questa loro visita nel sancta sanctorum del nemico, questo passeggiare ostentato a casa di chi potrebbe con uno schiocco delle dita, li e subito, farti fuori, è più importante di qualsiasi atto d’accusa, è una presa di posizione coraggiosa e feroce al tempo stesso, un dirti io sono qua, a casa tua, vengo e non ho alcuna paura perché tanto a me gli incidenti non capitano e io non ho alcuna paura di tirare i calci di rigore.
Così, in questa tiepida serata di metà agosto, a quarant’anni di distanza, ripassando la storia e le storie che mi hanno attraversato la strada, rivedo una dietro l’altra, le sensazioni e le paure, le angosce e le sorprese, la fama e la notorietà di quello che fu mio zio Cesare, assassinato da coloro di cui non ebbe mai paura.