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Gli strali patafisici di Antonio Castronuovo. ‘Tutto il mondo è palese’, edizioni Babbomorto

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Antonio Castronuovo è un autore dall’ingegno multiforme i cui interessi spaziano dalla scrittura aforistica al saggio storico, dalla traduzione all’attività editoriale (è infatti il fondatore dell’opificio di plaquette da collezione Babbomorto Editore, un esperimento tanto improbabile quanto geniale che sta dando ottimi risultati e vanta già un catalogo ragguardevole), il tutto accompagnato da una visione patafisica della vita e del mondo, che si traduce, ovviamente in uno sguardo ironico sulla realtà. La stessa ironia che contraddistingue Tutto il mondo è palese, la raccolta di aforismi recentemente riedita proprio dalle edizioni Babbomorto. Il testo, che raccoglie duecento sentenze, propone l’aforisma di lunghezza minima, non superiore alle due righe, lapidario e folgorante. D’altra parte Bufalino ha scritto che «un aforisma ben fatto sta tutto in otto parole». Sono massime “minime”, in cui l’autore si diverte a giocare con le parole, ribaltando proverbi e modi di dire, creando paradossi. A prevalere sono gli aforismi caratterizzati da una struttura di tipo narrativo, con soggetti alla terza persona singolare e il verbo coniugato al passato.

Nella raccolta si può individuare un filone di aforismi incentrato sul tema della cultura e sulla condizione dell’intellettuale nella società moderna, nonché sull’arte stessa di scrivere aforismi: piccole grandi verità che al coraggio di dire e alla lucidità di analisi uniscono uno stile brillante tutto giocato sul potere della parola. Il potere di incidere e di illuminare, di fondere insieme concisione espressiva e forza concettuale senza dimenticare che le parole, quando sapientemente combinate, recano in sé anche una componente ludica. È così che Castronuovo riesce sempre a strapparci un sorriso, anche se dietro di esso si cela la malinconia o l’amarezza di chi sa che in fatto di cultura i tempi odierni non sono più quelli fulgidi e fecondi di una volta. All’aforista contemporaneo non resta che osservare con disincantato distacco la realtà che lo circonda e di cui è inevitabilmente parte, non esitando, quando occorre, a rivolgere i suoi strali acuminati anche contro se stesso e la propria arte, fustigando con stile brillante e gusto del paradosso l’ipocrisia di talune categorie di intellettuali veri o presunti: sedicenti poeti, scrittori incompresi, imperterriti organizzatori di eventi, neolaureati ignoranti. Le stoccate di Castronuovo vanno sempre a segno, mordaci quanto basta per spingere il lettore a riflettere, ma sempre mitigate dall’arma sottile ed elegante della dissimulazione ironica.

Di questa piccola preziosa perla del parlar breve ritengo opportuno fornire qui di seguito un gustoso estratto, in ossequio al poetico non sense dell’esistenza che solo un vero patafisico sa sublimare in arte.

Come sei magro – gli dicevano – fai sport? No, faceva letteratura.

Capì che la vita era perfettamente congegnata affinché nessuno fosse felice.

Temeva l’aforisma che superava la seconda riga.

Chiamavano cultura la perenne organizzazione di eventi.

Un folle: leggeva tutti i libri che comperava.

Visse d’arte. Morì di fame.

Sorrideva quand’era disgustato dal mondo. Lo giudicavano pertanto felice.

Scriveva aforismi perché non sapeva scrivere filosofie.

«È un romanzo bellissimo», diceva chi aveva letto, ultimamente, solo quello.

Patetica come un’avanguardia al terzo anno.

Essendo mediocre in ippica, decise di darsi all’arte. Realizzò poesie che furono stampate.

Si accorse, con orrore, di avere spesso ragione.

Nell’incertezza della gloria postuma lasciò tutte le opere incompiute.

Per amarsi non trovavano di meglio che mettersi reciprocamente in gabbia.

Invece che spiritualmente arricchito, dai musei usciva col male alle caviglie.

Non sapeva come evitare i pessimi lettori. Smise di scrivere.

Amava l’umanità, ma non sopportava il vicino di sopra.

Un libro nuovo era una promessa di felicità. Fino alla decima pagina.

Una bella donna era una promessa di felicità. Fino al decimo giorno.

Assessore alla cultura: un tale che decideva che cultura fare.

Raccolse l’invito a non leggere nulla d’immorale. Dovette ignorare i capolavori.

Il disagio dei docenti in un treno pieno di studenti. Conobbe il destino di ogni scrittore: macchiarsi d’inchiostro e diventare miope.

Riformulò Cartesio: «Penso, dunque mi stanco».

Impudico il piacere dei sensi, ma nessuno giudicava impudico quello della mente.

Dittatori democraticamente eletti.

Da molto tempo non aveva di che confessare. Peccò appositamente.

Il suo incubo notturno: essere oggetto, dopo la scomparsa, di letteratura erudita.

Praticavano l’amor platonico, ma si chiudevano a chiave.

Storia antica: essere letti senza essere stampati.

Storia moderna: essere stampati senza essere letti.

Stava piangendo, quando la ciotola cadde e produsse una bizzarra macchia. Rise sul latte versato.

Non voleva avere dubbi, ne era certo.

Molto sudore per nulla.

Travolto dagli impegni, se la cavò con qualche livido.

Che fare oggi? Partecipò a un premio letterario.

Sapeva trafugare frasi e idee dai libri: poteva cominciare a scrivere.

Tra le arti, fu la poesia a espandersi a macchia d’olio, fino ad avere un poeta in ogni condominio.

Ignorante come un neo-laureato.

Giunti a cento, gli aforismi diventavano insopportabili. Contò i suoi: erano il doppio.


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