Arriva alla sua quarta pubblicazione di poesia Gabriella Valera Gruber che, storica di professione e in tale ambito docente emerita dell’Università di Trieste, coltiva da tempo la passione per il linguaggio poetico, la musica, l’arte e quanto di bello e di significativo da queste discipline può sbocciare. E non si tratta di una passione rivolta solo alla propria pratica poetica e al sé, ma di un vero e proprio impegno sociale, in quanto Valera, oltre ad aver fondato il “Centro Internazionale di Studi e di Documentazione per la Cultura Giovanile”, che raccoglie e porta avanti i frutti del suo impegno nella ricerca e nell’insegnamento, promuove da vari anni il “Concorso Internazionale di poesia e teatro Castello di Duino” e più recentemente il “Forum Mondiale dei Giovani Diritto di Dialogo”; ha inoltre fondato e presiede l’associazione di volontariato “Poesia e Solidarietà”, che realizza progetti di cittadinanza per i disabili. Un tale appassionato impegno non si può non riflettere anche nella sua produzione poetica, e la sua ultima raccolta lo riassume e lo esemplifica fin dal titolo, Scendevamo giù per la collina: un andare insieme, giù, verso i fardelli della terra piuttosto che verso le evanescenze del cielo, un planare che, come il componimento eponimo evoca, è uno scendere nella luce che veniva incontro, / presagio di futuro andare.
Uscito nel giugno 2019 nella collana di poesia “Asteria” diretta da Enzo Santese (Battello stampatore), il volume è corredato da una prefazione di Claudia Azzola, da una postfazione dello stesso Santese e da alcune incisioni di Ottavio Gruber, che di Gabriella Valera è il compagno di vita. Un amore nato in età matura il loro, più volte evocato in alcune liriche della raccolta, che sembra completarsi nella comune passione per la solidarietà e, nella vita come sulla carta, in una delicata sintonia di toni, che in questo libro accosta la parola misurata ma incisiva di lei e, di lui, il tratto tenue e sfumato.
Nella poesia di Valera – in questo volume in particolare ma anche nei precedenti – la condizione dialogica è imprescindibile, che si tratti di un dialogo attraverso un tu vicino e intimo o di un rapportarsi dialogico più collettivo e ampio. Certo la condizione umana dell’io poetico che riflette su di sé, e sovente sulla difficoltà del vivere e sulla propria inevitabile solitudine, non manca, occupa anzi molte liriche, ma sempre tende a superarsi in un’anelito insopprimibile di comunicazione e di speranza, nella contrapposizione tra durezza e bellezza, tra estremità desolata dell’esistere e improvvisi momenti di grazia che, nel loro manifestarsi, dell’esistere fanno riscoprire la semplice stupefacente necessità. Nascono allora tra dolore e incantesimo, guardando le coste dei Balcani in guerra (Trieste, 1992), epifanie come questa: Un tramonto così / tenne a lungo in ostaggio / la mia anima / e chiusi gli occhi / per non vedere / tanta bellezza / fra i lampi / del fuoco e della morte; si librano nel silenzio visioni di sospensione e di assoluta purezza: Azzurro da questo balcone / una casa sospesa nel tempo […] Un balcone sul mare / orizzonte lunare di stelle / una casa sospesa nel sole / una donna; o sinestesie in cui natura e anima si amalgamano in un unico orizzonte: E adesso il mare / ha la luce lunga / di una lunga lama d’argento / che giunge dall’orizzonte / fin dentro i pensieri, / toglie ogni direzione / al tempo / unico / dell’anima.
Quando il tu è intimo si dispiega, come in un canzoniere, in dialogo con l’amato, o con una presenza amica duale che è imprescindibile referenza e talora sostegno; o ancora, in una sola lirica ma intensissima, in conversazione con la madre. Più spesso il dialogo è con un voi che presuppone un mondo di simili con cui condividere il cammino – i compagni della discesa dalla collina – o di dissimili e diversi, spesso più sventurati, con cui è ineludibile fraternizzare: Compagni della mestizia e dell’amore […] compagni dell’avventura / che la vita colma / appena sfiorando il calice, / la mia bellezza / è tutta chiusa nei vostri cuori muti.
Talora il tu e il voi si sovrappongono, sfumano l’uno nell’altro nella stessa lirica, passano da un tu più ristretto alla solidarietà più universale del voi: Ho costruito la mia dimora in te / come una pianta radicata nel sole […] Ho visto l’ombra che si avvicinava / e ti ho baciato […] Ora lascami andare / mentre il sole distende i suoi raggi su di noi […] Avrò una lacrima / per ciascuno di voi […] Ho costruito la mia dimora nel vostro sguardo / per accoglievi nel mio destino. E l’accoglienza, naturalmente, tocca tutto il dolore del mondo, da quello più privato a quello cosmico, dalla solitudine esistenziale e dall’estraneità del sé alla follia collettiva delle guerre, delle stragi, dell’egoismo cieco e sordo della parte privilegiata del mondo. C’è anche una forte vena sociale, infatti, in questo libro, che dedica versi ad alcune tragedie della contemporaneità: dalle guerre, che non si possono “correggere” e che ci portiamo addosso come una coperta indecente / che accarezza il corpo, alle migrazioni, di cui diventa emblema il piccolo Aylan Kurdi, alle morti sul lavoro, a quelle sul confine come accade alla bambina Jaklin in Messico, alle sofferenze dei bambini martoriati su tutte le frontiere, a quelle degli affamati, delle vittime di attentati.
Viene espressa l’ossessione del frastuono, dell’affannarsi vuoto e troppo veloce del mondo, così lontano dal raccoglimento che richiede la poesia e, a ben pensarci, anche da quello che domandano la sollecitudine e l’ascolto dell’altro. Un frastuono in cui da anime sensibili e attente ci si sente di certo soli, ma anche si comprende il valore cosmico di questa solitudine che confina con la quieta stasi dell’eternità e con il volgere senza tempo dell’universo. “Qualche volta – recitano alcuni versi – mi sento così solo / che vorrei essere ancora più solo / […] Vorrei dimenticare il luogo / dell’ultimo esilio, fra tanti, / e il lungo giorno dell’attesa / e avere un solo pensiero, / restituire all’uomo / al cielo e ai suoi pianeti / la solitudine che li ha generati / la solitudine da cui trassero il loro volto / e i loro addii.
Non è il solo esempio, quest’ultimo, in cui la poeta adotta, per dire, non il genere femminile del suo sesso, ma quel maschile che il canone letterario ha fino a poco tempo fa considerato come soggetto unico universale. La sua scelta vuole sottolineare, come lei stessa ha avuto occasione di dichiarare, che si tratta non di un sentire personale, ma di percezioni, assunzioni e deduzioni che hanno a che fare con il più largo stato della condizione umana. Perché la poesia, come ogni altro genere letterario, ha di certo radice nel sé, ma sarebbe un grosso errore ricondurla a un ambito puramente autobiografico. Il desiderio di fusione e di unanimismo è tale da far scaturire versi di icastica universalità come questi che seguono: Sono soltanto un uomo / non posso ascoltare / il vento che narra / millenni dell’universo. / Ho soltanto i miei anni / che poggiano i loro destini / su lembi di terra bagnata.
Di fronte al molto dolore del mondo e alla limitatezza umana quel che non viene mai meno, in ogni caso, è la speranza, declinata sulle piccole minute occupazioni con cui ci si ostina a dare un senso all’esistere, o lungo uno slancio più ambizioso e utopico. Un’orgia di parole ho letto / di grida e di morte e di orrore: / – scrive la poeta – ma io stamane / davanti al mio scrittoio / ho cominciato il mio lavoro onesto / […] L’umanità fuggita / dai luoghi delle guerre / avanza senza pianto. La vita è cosa buona, sembra dire, / guardando avanti / lo spazio sconfinato di una fine. E ancora: E se il mio sguardo giovane / si accenderà di luce / io vi dirò / lasciatemi brillare / ho desiderio di creato.
Fra tanti materiali di pensiero talvolta, per l’accostamento di frammenti eterogenei, la parola sembra quasi contraddirsi, ma subito si avverte che l’oscillazione tra alto e basso, tra la fuga nel sogno e il sostare nella realtà più dura e terrigna non sono contraddizioni del dettato poetico, per sua natura sempre misterioso e ambiguo, ma rappresentano piuttosto le inevitabili oscillazioni della vita. In cui è il dialogo appunto, la socializzazione delle esperienze, come pure della parola, a medicare e salvare.
Così, in un susseguirsi di liriche che in quanto evocative non hanno un ordine cronologico ma, come è proprio dell’evocazione, emozionale e psicologico, la poeta spazia attraverso una gamma vasta di situazioni e sentimenti, supportati però da un’ossatura stilistica unitaria, che rimanda a quel linguaggio classico e limpido a cui Valera è devota e di cui è portatrice. Un linguaggio che non è mai sostegno all’ardimento o all’oscurità della metafora di cui certa poesia si ammanta, ma che persegue la parola essenziale e necessaria, l’adesione a un imperativo etico, e anche idealmente utopico, che trova radice da un lato nei classici su cui Valera si è formata, dall’altro in quel pensiero storico-filosofico, in quella filosofia del diritto e in quel rigore del metodo scientifico che per lavoro e passione ha praticato.
Il suo stile è in ogni caso consapevole, finemente lavorato pur se non si avverte, come dev’essere quando il lavoro è ben riuscito, la paziente officina che questa purezza minimalista richiede. Come scrive giustamente Enzo Santese nella sua postfazione, “nella poetica di questa autrice non ci sono dichiarate sperimentazioni, perché il nuovo in lei germina continuamente nella scrittura iscrivendosi con nitore nella sua coscienza che poesia è vita solo quando ha l’onestà sabiana di rappresentare il vero”.
La poesia è cosa fragile e misteriosa, ama dire questa poeta dall’aspetto gentile e fragilissimo, ma animata da una forza di pensiero, d’animo e di organizzazione tale da riuscire a tessere, con la sua passione del dialogo, innumerevoli relazioni, che si sostanziano e si concretizzano in progetti sociali e culturali che coinvolgono persone di tante diverse nazioni e di ogni età. Come il nome dell’associazione culturale che ha fondato suggerisce, poesia e solidarietà sono strettamente intrecciate; e se il sentire poetico che pervade il mondo diventa, per Gabriella Valera, progetto e pagina scritta, è dalla condivisione dei valori del progetto e della pagina che tornano a fiorire, in un ciclo continuo, la riflessione e la ritualità della parola.