Romano Prodi è un personaggio atipico. Compie ottant’anni ma non li dimostra affatto; anzi, diciamo che si porta a meraviglia una vecchiaia cui si stenta a credere dal punto di vista fisico e che non è mai arrivata sul piano intellettuale.
Nativo di Scandiano, in provincia di Reggio Emilia, sembra uscito un po’ dalla penna del Guareschi e un po’ da quella di Edmondo Berselli, con cui, non a caso, erano molto amici. Ha degli emiliani il tratto tipico bonario ma, al tempo stesso, la solidità e la testa dura, al punto che, quando è stato a Palazzo Chigi, dimostrando un’ammirevole resilienza in entrambe le occasioni, si diceva di lui che fosse una “testa quadra reggiana”, uno di quelli cui non la fai facilmente, uno duro a morire, pronto a condurre in porto le proprie idee e a battersi fino in fondo per i propri ideali e le proprie convinzioni.
Del resto, non potrebbe essere altrimenti, se si considera che stiamo parlando di un dossettiano, stimato da De Mita e forgiato da Beniamino Andreatta: un altro che, quando a testardaggine, non era secondo a nessuno e che, pur essendo nativo di Trento, a Bologna aveva piantato le tende e lasciato un pezzo di cuore, oltre alla mirabile eredità del suo operato politico e accademico.
Il West di Prodi, popolato di pistoleri dall’indole mutevole, di avversari irriducibili e anche di qualche vero e proprio nemico, è sempre stata la trincea di un uomo solo apparentemente poco incline al duello ma in realtà pugnace e battagliero come come solo i miti sanno esserlo al momento opportuno, sconfitto più dalla propria lungimiranza visionaria (un’altra eredità di Andreatta) che dai propri errori, che pure purtroppo non sono mancati.
Ha fallito l’elezione al Quirinale per i ben noti motivi ma non si è perso d’animo. Da anni, ormai, coltiva la sua notevole statura internazionale e un europeismo sensato, apoassionato e critico come la passione civile che lo anima, oltre ad essere stato fra i primi a intuire la portata dell’avanzata cinese e le sue conseguenze sullo scacchiere globale.
Perché Prodi è fatto così: riesce a comprendere le esigenze del fruttivendolo sotto casa e quelle delle nuove classi sociali che emergono a Pechino, parlando con la stessa naturalezza con uno dei suoi studenti, con una signora incontrata per strada e con il segretario delle Nazioni Unite.
Quando l’unione vinse le elezioni nel 2006, lo definii “un leader tra la gente”. Mi lasciai prendere, devo riconoscerlo, da un eccesso di ottimismo: non compresi fino in fondo che il tessuto profondo del Paese si stava già slabbrando e non capii che la fiducia e la speranza che molti di noi riponevano in quell’esperienza di governo non era in sintonia con il sentire comune di una società già allora in tumulto e pronta a lanciarsi in una pericolosa corsa verso il nulla.
Non voglio essere agiografico: il nostro, in qualche caso, ci ha messo pure del suo, benché gli vada dato atto di aver sbagliato sempre e comunque in buona fede e sicuramente meno rispetto ad altri.
Una mattina, a Cesenatico, nel corso della seconda edizione della Summer School della Scuola di Politiche, Letta ci disse scherzosamente che l’ottima forma del suo secondo maestro fosse dovuta al fatto che quel giorno, appena svegliato, si era concesso un’ora e venti di corsa. In effetti, ogni volta che lo incontro, mi sembra sempre più in salute e sempre più determinato, il che, visti i tempi, costituisce un’ottima notizia. Buon compleanno, immarcescibile Professore!
P.S. Sono certo che anche Prodi condivida il rammarico per la scomparsa del regista Alberto Sironi, il padre televisivo del commissario Montalbano. Che brutta estate!
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