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Sudan, la rivolta delle donne: chiediamo parità nel governo di transizione

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Se la rivolta in Sudan fosse identificabile in un colore sarebbe il rosa. La presenza delle donne nelle rivolte che hanno portato alla caduta del presidente – dittatore Omar Hassan al Bashir è stata significativa, mai così consistente e determinate.
Eppure oggi che è stato raggiunto un accordo tra Giunta militare e Forze della libertà e del cambiamento non si vuole riconoscere la parità nella suddivisione dei seggi del nuovo organismo sovrano.
“Min accetteremo meno del 50% della rappresentanza nel governo di transizione” ha dichiarato Tajani Abbas, tra i volti più noti delle attiviste in prima linea nelle rivolte.
Una mobilitazione potente quell delle donne sudanesi, un fiume umano punteggiato da migliaia di minute figure gentili in thobe, una lunga striscia di tessuto che rappresenta la tipica veste femminile del Sudan, quasi sempre in tinte sgargianti.
In decine sono rimaste uccise o ferite nelle dimostrazioni pacifiche represse nel sangue dalle forze di sicurezza del governo islamista al potere dal 1989, prima, e dalle milizie paramilitari al comando del Consiglio transitorio dei generali che ne avevano determinato la caduta, poi.
L’elemento di novità assoluta della svolta storica in Sudan è stato dunque la significativa presenza femminile.
In un paese come il Sudan, dove osare di indossare un paio di pantaloni può costare 40 frustate, è una rivoluzione nella rivoluzione.
Gran parte del merito della rimozione di al-Bashir va a loro, alle donne sudanesi, che hanno svolto un ruolo di primo piano nelle rivolte diventando protagoniste del movimento nato per rovesciare pacificamente un regime che da 30 anni opprimeva il proprio popolo.
Una su tutte l’immagine simbolo. Una foto iconica, divenuta virale sui social nel giro di poche ore, che ritraeva Alaa Salah, una studentessa di 22 anni che sul tettuccio di un’auto tra migliaia di persone intonava canti inneggianti alla ribellione.

A scattare la fotografia un’altra donna, l’attivista Lana Haroun che insieme a tante altre giovani, ma anche meno giovani, si erano radunate davanti al quartier generale dell’esercito a Khartoum, la capitale del Sudan, per chiedere a gran voce libertà, giustizia e democrazia.

Avvolta in un lungo strato di tessuto bianco scintillante, come gli orecchini color oro che le illuminavano il viso, Alaa ha preso la scena dominando la folla di manifestanti, portando su un dito con aria di sfida intonando ‘thowra’, rivoluzione in arabo.

Nonostante avesse ricevuto minacce di morte, la 22enne ‘incoronata’ Khadara, regina nubiana delle proteste, ha continuato ad accusare sui social il regime di al-Bashir, prima, e a mettere in guardia dal nuovo Consiglio militare che lo aveva deposto, dopo, esortando i civili a non lasciarsi “ingannare dal colpo di stato” e a chiedere che non fosse un esponente delle forze armate a guidare il governo di transizione.

“Cantando quelle strofe non pensavo di diventare un simbolo, volevo solo imprimere forza al nostro manifestare” racconta la studentessa raggiunta via Twitter, dove ha aperto un suo profilo per continuare a lanciare i suoi messaggi a supporto della rivolta – Oggi voglio cogliere questa occasione per denunciare i diritti violati delle donne in Sudan e far sentire che siamo forti e in grado di essere alla pari degli uomini”.

Nonostante le intimidazioni e le vessazioni che le sudanesi affrontano quotidianamente, che vanno dal matrimonio forzato fin da giovanissime (l’età legale per sposarsi nel Paese è di 10 anni) alla violenza domestica, dalle molestie sessuali allo stupro, in migliaia sono scese in piazza anche per chiedere politiche di tutela e di protezione.
Le leggi attuali di ordine pubblico, basate sulla Sharia, sono estremamente restrittive in Sudan sia per quanto concerne l’abbigliamento, che per il comportamento e l’istruzione femminile. Norme che hanno portato a una oppressione inaccettabile e a punizioni disumane per le donne sudanesi succubi di un sistema maschilista e patriarcale.
“Non possiamo più accettare che sia consentito legalmente di sposare delle bambine – racconta Amane Tahani, fondatrice dell’organizzazione non governativa per i diritti delle donne “Sudanese woman in action” – costrette a matrimoni con uomini molto più anziani senza il loro consenso. Come è intollerabile che lo stupro coniugale non sia punibile”.
Alaa, Lana e tutte le altre ‘ribelli’, che da Khartoum a Omdurman fino al Darfur hanno sfidato con coraggio i proiettili e i gas lacrimogeni, sono l’immagine migliore di questa battaglia per la libertà e la giustizia.
I diritti delle donne in Sudan sono stati più volte al centro di campagne internazionali, come quella partita dall’Italia lo scorso anno sulla condanna a morte di una giovane costretta a sposarsi a 15 anni, Noura Hussein, arrestata e giudicata per aver ucciso il marito che cercava di violentarla.
Solo grazie alla mobilitazione (ndr promossa anche dall’autrice di questo articolo che oltre a essere giornalista è presidente della onlus Italians for Darfur, associazione che aveva lanciato la petizione su Change.org per chiedere la liberazione di Noura che ha raccolto oltre 1,8 milioni firme) la pena capitale è stata scongiurata e la sentenza ridimensionata. Noura sta scontando cinque anni di prigione. Non un verdetto giusto, ma la sua vita è salva.
Nonostante le repressioni di ogni loro diritto e violenze continue, le donne sudanesi sono state in prima linea nelle proteste un po’ ovunque nel Paese.
La percentuale femminile dei manifestanti scesi in strada, in particolare a Khartoum, ha raggiunto il 70 per cento.
Il fermento a tinte rosa è partito, e ha avuto grande spazio, nelle organizzazioni giovanili della società civile, soprattutto sulla scia del movimento studentesco del 2012 ispiratosi alle primavere arabe. All’inizio del 2018 le studentesse dell’Università femminile di Ahfad a Omdurman si erano mobilitate contro le violenze subite all’interno del campus, subendo ritorsioni e finendo anche in carcere per “turbamento dell’ordine pubblico”.
“Siamo felici di aver dato un contributo così importante a questa rivolta -racconta soddisfatta Lana – ma non è ancora finita. Ora è giusto che noi donne partecipiamo attivamente alla formazione del governo. Il cambiamento non accadrà se viene permesso che prevalgano le logiche del regime che abbiamo buttato giù pagando un caro prezzo”.
Gli attivisti e i professionisti che con le donne hanno sfilato fianco a fianco sostengono la loro richiesta di parità bella designazione degli incarichi di governo.
La speranza è che possa davvero crearsi un governo non influenzato da vecchie logiche e che ci sia una significativa e dignitosa presenza femminile.
Tra le figure più influenti della scena politica sudanese che potrebbero aspirare a un ruolo importante, Mariam al-Mahdi, figlia di Sadek al-Mahdi, il presidente democraticamente eletto nel 1986 e deposto da Bashir con il colpo di stato nel 1989 che lo portò al potere.
Avvocato e attivista politica, il mese scorso la Al Mahdi era stata arrestata e condannata a una settimana di carcere per aver partecipato a una manifestazione a Omdurman.
Che venga da lei o dagli altri simboli femminili di queste rivolte, il contributo delle donne alla creazione di un nuovo governo di speranza e di democrazia non potrà mancare.


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