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L’allegro plotone di esecuzione social

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Presso la sede della federazione degli editori, nell’ambito dell’accordo siglato con Google nel 2016, si è tenuto lo scorso lunedì un workshop su “Le nuove frontiere del giornalismo digitale”. La base della discussione è stato il “Reuters Institute Digital News Report 2019” illustrato da Nic Newman, senior della società, introdotto dal direttore generale della Fieg Fabrizio Carotti. Ne hanno parlato il docente Sergio Splendore, l’analista dei media Pier Luca Santoro, Riccardo Terzi di Google e Andrea Santagata della Mondadori.
Il rapporto svolge un’analisi delle strategie e dei consumi editoriali, ivi compresi abbonamenti e donazioni, condotta in circa 40 paesi.
Diciamo subito che si registra solo un piccolo aumento delle sottoscrizioni per le notizie on line, limitato ai paesi del Nord come Norvegia e Svezia e in parte agli Stati uniti. Italia e Germania in basso alla classifica, con l’8-9% sulla spesa complessiva. Anche nelle aree dove la forma di pagamento diretto ha maggiore fortuna, l’abbonamento è uno solo e per di più rivolto all’intrattenimento (Netflix, Spotify). Non è una bella novella per i teorici dell’era digitale. Se calano gli introiti tradizionali, a cominciare dagli acquisti in edicola, ma non si moltiplicano quelli finalizzati alla distribuzione in rete, c’è qualcosa che proprio non funziona nei modelli di business accreditati dai “capitani” del capitalismo dell’informazione. Si capirà, speriamo prima che sia troppo tardi, che la carta stampata e le edicole non vanno abbandonate come reperti del passato, mentre – opportunamente ri-mediate – possono resistere a lungo. Per il bene del sistema e della sua stessa economia politica. Tra l’altro, proprio gli Stati uniti dimostrano che pochi sono in grado di beneficiare del pagamento diretto: New York Times, Wall Street Journal, Washington Post. Il resto briciole.
Se i social aumentano prepotentemente la loro forza anche nelle news (un po’ meno Facebook, in ascesa WhatsApp), in Italia l’usato sicuro della televisione generalista continua imperterrito, toccando quasi l’80% della fruizione. La percentuale cambia fortemente – però – nelle nuove generazioni e, come ha osservato nel dibattito Michele Mezza, non è neppure detto che il rapporto con lo schermo sia univoco e non condiviso con gli stessi social: basti osservare l’andamento dei post, dei tweet o di Instagram durante tante trasmissioni.
Comunque, in cima alla classifica per il veloce reperimento delle notizie, si collocano gli smartphone, passati nel periodo 2013-2018 dal 35% al 58% di utilizzatori. Ciò conferma diverse analisi predittive: la televisione rimane regina dei media, ma visibilmente accerchiata e contaminata da forme assai varie e plurali nella circolazione del “valore-notizia”.
Certamente, i segni meno sono tutti sulla situazione della carta stampata, che vive in un quadro di difficoltà crescente anche per l’assenza di regolazione degli Over The Top. Il 75% della pubblicità on line si orienta verso gli oligarchi della rete, e solo il 15% all’editoria. Insomma, se si vuole immaginare una transizione non violenta dall’analogico al digitale, serve un quadro normativo adeguato. In fondo, lo studio di “Reuters Institute” ci ammonisce che la frontiera è aperta, e richiede un salto di qualità nelle analisi e nella progettualità.
Proprio ieri l’Auditel ha presentato nella sede milanese l’apertura della campionatura degli ascolti ai device digitali. Non è un caso. Il futuro dovrebbe stare in una equilibrata dieta mediatica e non in qualche cinico plotone di esecuzione.

 

 


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