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SORDI (ventunesimo capitolo del “Glossario Felliniano”). Verso il Centenario della nascita di Federico Fellini

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«In un primo tempo avevo dei dubbi, non sapevo bene chi volevo per il personaggio del divo dei fumetti. Avevo pensato a un bellone volgare, tipo Rossano Brazzi. D’altra parte Sordi usciva dal fiasco di Mamma mia che impressione ed era malvisto dal noleggio. Ma io capivo che lui ci teneva. Mi ricordo che un giorno andai a trovare Giulietta sul posto di un filmetto che stavano girando fuori Roma. C’era anche Alberto, vestito da soldato, che faceva parte del cast degli attori. Mi ricordo che si mangiava sotto gli alberi, era d’estate, una colazione coi panini, c’erano le cicale. Alberto stava seduto per terra, io mi alzai per andare via. “Addio Alberto”. “Vai già via? Addio Federì.” Poi disse: “L’hai trovati gli attori per il film?” e io quasi seccato: “No, non li ho ancora trovati.” Allora lui tirò su quegli occhi chiari e con grande semplicità, con quegli occhi sbiaditi, disse: “Perché non me lo fai fare a me, Federì? Lo sai che te lo farei bene!” Non lo disse da questuante, ma lo disse in tono serio, senza presunzione, come se fosse già disposto ad essere scartato. Era consapevole d’essere bravo, ma con molta umiltà. Questo suo atteggiamento mi colpì, ci pensai dopo e mi smosse dentro qualcosa. Allora decisi di fargli il provino. Mi ricordo che già nel provino era straordinario.»

Così Fellini parla del suo primo film da regista, Lo Sceicco Bianco, e di come accadde che alla fine Alberto Sordi ne divenne il protagonista, al fianco di Brunella Bovo e di Leopoldo Trieste, gli sposini in viaggio di nozze a Roma, travolti da una amorosa vicenda tragicomica.

Alberto Sordi non faceva ridere al cinema, e aveva precedenti assai poco incoraggianti. I produttori non lo volevano. Infatti Lo Sceicco Bianco andò male. Fu bocciato al Festival di Cannes, rientrò a stento nella selezione della Mostra d’Arte Cinematografica di Venezia, ma fu accolto piuttosto freddamente dal pubblico festivaliero e con palese ostilità da parte della critica. L’uscita nelle sale si risolse in un fiasco. 

Alberto Sordi ricordava di quando lui e Fellini si infilarono al cinema Manzoni di Milano per spiare le reazioni degli spettatori:

«Entrammo: tutto buio, tutto deserto, tutto silenzio. Barcollammo un po’, poi ci accorgemmo che le sedie erano vuote, non c’era nessuno. A un certo momento sentimmo ridere; allora un po’ confortati ci indirizzammo verso quella parte e ci sedemmo dietro quelli che ridevano: era una coppia anziana, lui le teneva il braccio attorno alle spalle. Stemmo lì a orecchie ritte, ma poi ci accorgemmo, con stupore, che quelli non ridevano mica, ma irridevano! Irridevano a me, allo Sceicco, e dicevano: “Ma chi l’è chel lì? Sel sa nanca parlà!” “Guarda ti che roba!” “L’è una roba da matti!” Ci alzammo delusi e sgusciammo via nel buio, quatti quatti, come due ladri inseguiti.»

Per la mancanza di incassi la società produttrice di Luigi Rovere dovette chiudere e Lo Sceicco Bianco fu alla fine sequestrato dal curatore fallimentare.

Fellini spiegava: «Purtroppo la comicità di Sordi in quegli anni era capita da pochissimi. Forse perché aveva qualcosa di folle come accade a tutti i talenti innovatori. O forse perché non aveva una dimensione né ironica né sentimentale, ma era grottesca con un fondo di sgradevolezza che non piaceva. Ogni volta che avevo parlato di lui a registi e a produttori, avevo sempre visto delle smorfie, dei cenni di diniego. Io ebbi enormi difficoltà a prenderlo. Povero Alberto, ha dovuto fare una gran fatica a venir fuori.»

Ma Sordi, consapevole dei propri mezzi, non perse la fiducia in se stesso: «Io non gli ho mai visto un’espressione mortificata sul viso. – Osservava Federico. – Non faceva mai cenno a queste umiliazioni. Non aveva neanche una baldanza rancorosa, rivendicatrice. Nulla. Sembrava soltanto che avesse la consapevolezza d’avere un talento vero e che si trattasse di tempo. Era molto dignitoso, ricominciava sempre. Mi ricordo anche che non provava invidia: quando gli spiegavo o gli mimavo qualcosa, me lo vedevo davanti, col suo faccione un po’ lunare, coi suoi occhi tondi, e diceva come incantato: ‘Quanto sei bravo Federì! Ammappelo se sei bravo.’ In questo era simpatico.»

Il problema del cast si ripropose con I Vitelloni. Fellini, incurante dell’ostilità, lo scelse per il ruolo di Alberto:

«Lì per lì – ricorda Sordi – io avrei risolto molte cose in maniera diversa, ma poi Federico mi aiutò a capire che un personaggio, anche più contenuto, può funzionare benissimo… Non c’è bisogno che uno punti solo sui momenti comici per far ridere il pubblico, in realtà ci possono essere dei momenti seri a cui uno si interessa ugualmente. M’insegnò che lo spettacolo è proprio così com’è la vita: ha i momenti allegri e i momenti dolorosi, un po’ di tutto».

A riprese concluse la società distributrice ENIC chiese addirittura che il nome di Sordi venisse cancellato dai manifesti e dai titoli di testa. Il film fu accettato in concorso a Venezia ma per precauzione venne organizzata in anticipo una serata a Mestre per saggiare le reazioni del pubblico. Sordi era comprensibilmente in fibrillazione:

«Mi ricordo che i dirigenti della serata erano un po’ preoccupati, avevano paura che gli operai presenti in sala si sentissero derisi e si ribellassero per quella mia battuta: “Lavoratori!” seguita da una pernacchia. Invece quando arrivò il momento di: “Lavoratori!” il teatro venne giù dal gran ridere… Allora io cominciai a capire che in ogni battuta dei Vitelloni le persone si riconoscevano, che ridevano a sentir dire questa frase: “Se ti dessero diecimila lire lo faresti il bagno?” perché l’avevano detta anche loro, ridevano del modo in cui si tirava il calcetto al barattolo perché anche loro l’avevano fatto da giovani… Cominciai a capire che il pubblico era contento di ritrovare sullo schermo tutta questa esperienza di vita… A poco a poco si formò una tale atmosfera di interesse, si sentiva nell’aria un tale divertimento, una tale attenzione! Si sentivano continuamente delle risate.»

Il successo di Mestre fu travolgente, replicato la sera successiva nella proiezione ufficiale al Lido. Sordi aveva trentatré anni, e per la prima volta dopo diciotto lunghi anni di testardo lavoro, sentì di avercela fatta. Gli aggettivi di esaltazione dei recensionisti si sprecavano: insuperabile, perfetto nella parte, acutissimo, penetrante, ottimo, mirabile. Per la sua interpretazione l’attore ottenne in seguito il Nastro d’Argento.

Già dal giorno dopo Alberto Sordi, ansioso di recuperare il tempo perduto, accettò tutti i ruoli che gli proponevano, e si trovò nello spazio di due mesi e mezzo a interpretare ben undici film, con tre turni al giorno su set diversi, che andavano dalle otto di mattina a mezzanotte.

Alberto Sordi, coetaneo di Fellini, era nato nel 1920. Nel segno dei Gemelli, posizione astrologica connotata da una duplice interiorità, da tensioni a volte discordanti, che trovano volentieri armonia sul palcoscenico, di fronte a un pubblico. Nel suo caso il doppio profilo del dio Giano ha generato un’intera folla di personaggi, amatissimi dagli italiani che vi si sono rispecchiati per mezzo secolo. Quando l’attore è passato a miglior vita, a Roma gli hanno dedicato la Galleria di Piazza Colonna, restaurata e riaperta dopo tanti anni di abbandono. La sontuosa costruzione tardo liberty prospiciente la Colonna di Marc’Aurelio (detta Antonina), a un passo da Palazzo Chigi e dal Parlamento, è diventata un salotto elegante. Con tripudio di negozi, librerie, caffè all’aperto, e un passeggio senza sosta tutto il giorno. Chissà se l’attore sarà contento di figurare su quella targa che lo onora in uno dei luoghi più prestigiosi della sua città. Penso che ne rimarrebbe intimidito nonostante la vanità comune a tutti i commedianti; e avanzerebbe confronti ridanciani con Fellini a cui, nonostante i cinque premi Oscar, è spettato appena un piccolo largo in cima a Via Veneto, prospiciente Porta Pinciana. 

Dopo i primi successi – Lo Sceicco Bianco, I Vitelloni – Sordi e Fellini non hanno più lavorato insieme.

«Ormai è diventato una maschera, – osservava il regista – l’incrostatura è inamovibile, ci vorrebbe uno scalpello per scollarla, e sarebbe perfino sbagliato affidargli personaggi separati da lui, come pretendere di cambiare faccia a Totò.» 

Sordi, straripato in una stupefacente, indelebile icona nazionale, non corrispondeva più all’interprete ideale di Fellini, spesso incarnazione segreta e quasi ectoplasmatica dei suoi transfert cinematografici. Tuttavia i due si cercavano, si volevano bene al telefono; e ogni tanto, l’uno o l’altro, guardingo, faceva una prima mossa di avvicinamento.

Come accadde nel 1975 quando Federico mi incaricò di girare uno special filmato sulla preparazione del Casanova e se ne servì, senza esporsi troppo in prima persona, per eseguire una serie di provini ai mostri sacri del nostro cinema di commedia, convocati solamente per un giro di giostra. 

Alberto Sordi venne al Teatro 5 di Cinecittà, dove il costumista Danilo Donati aveva rimediato qualche fondale e un magnifico abito settecentesco in cui l’attore si calò con la massima naturalezza pavoneggiandosi senza pudore: “Ah Federì, e guàrdame: non sono io Casanova?” S’era impossessato all’istante del personaggio e davanti a uno specchio di scena recitò, per gran parte improvvisando, un monologo esilarante e gustosamente autoironico.

Come compenso per il disturbo, gli fu inviato dalla produzione un bel televisore a colori. E dell’avventuriero veneziano, finito come tutti sanno sulle ampie spalle di Donald Sutherland, con lui non si parlò più; né credo che Sordi ebbe mai a rammaricarsene.  L’aveva presa a ridere, con finissimo spirito, con autentico affetto, senza la minima traccia di risentimento. Come potei sincerarmi di persona quando ci incontrammo quasi dieci anni dopo, nel 1984, per un nuovo film di natura del tutto diversa. Stavo mettendo insieme una carrellata di testimonianze con gli interpreti più importanti dell’intera opera felliniana. 

Questa volta non c’era Federico a fargli da sponda, e Albertone poté abbandonarsi liberamente ai ricordi, parlando dell’amico e di sé stesso come fossero ancora due principianti in cerca di gloria e il tempo non fosse trascorso. Si lasciò trascinare dalla corrente del sentimento, divagando, debordando. Quel fondo di amarezza che qua e là poteva affiorare per non essersi più creata l’occasione propizia di lavorare insieme al suo amico geniale, apparteneva ormai a un passato che non si cambia, a quelle vicende dell’esistenza su cui non occorre formulare altri giudizi. Lo Sceicco Bianco, I Vitelloni, i capolavori degli Anni Cinquanta appartenevano a una stagione lontana nella prospettiva, sebbene vicinissima nell’emozione. E Sordi, elegante, inappuntabile, circonfuso da quel decoro ‘borghese’ con cui amava presentarsi regolarmente in pubblico – abiti di buon taglio, cravatta, camicie di stile – si rivolgeva alla macchina da presa affondando visibilmente, parola dopo parola, in una memoria miracolosamente intatta. Gli occhi gli scintillavano, il viso ringiovaniva a vista, ritornava ragazzo in virtù di una segreta alchimia. E quando arrivò, con una serie di pause graduali, studiate, sapienti, a quella famosa affermazione sul suo amico Federico, “alto alto, secco secco, gracile, esile, ma ahò, con una capoccia grande così”, sembrava che quella capoccia l’avesse materialmente fra le mani, la tenesse abbracciata a sé, come il testone di carnevale che Alberto accarezzava piangendo nei Vitelloni. 

Sordi da par suo aveva rievocato la latteria in cui, per mancanza di soldi, i due amici all’inizio della carriera si rifugiavano per la cena, e grazie al corteggiamento della proprietaria “sotto l’uovo fritto al tegamino appariva per incanto la fettina di carne”. E sarà forse stata l’atmosfera complice dello studio, ma parola dopo parola s’era creata come una bolla in cui tutti noi, impegnati nella ripresa, eravamo scivolati senza neppure avvedercene, ingoiando lacrime e sorrisi. 

Albertone aveva poi ricostruito i lunghi momenti di angoscia che accompagnarono la presentazione a Venezia de I Vitelloni, pronosticata dai più come un insuccesso inevitabile e invece trasformatasi in un trionfo; certo è che mentre raccontava, persino la macchina da presa sembrava più silenziosa del solito, un ronzio appena percettibile. E quando l’attore concluse, sdrammatizzando con quella sua bella risata grassa, avvolgente, contagiosa, scoppiò un applauso fra i tecnici e le maestranze, incontenibile, fiammante d’entusiasmo, come fossimo stati tutti seduti nelle poltrone di prima fila del Sistina; in quel tempio della commedia musicale in cui quaranta anni prima Albertone, sul palcoscenico, aveva sospeso lo spettacolo incitando il pubblico ad acclamare Federico e Giulietta, in platea,  che si erano appena sposati sotto le bombe della guerra, nel 1943.

I due amici finirono per incontrarsi di nuovo su un set, ma per capriccio della sorte, a ruoli invertiti: Sordi regista, Fellini attore. Fu Maometto ad andare alla montagna; perché Alberto Sordi, ne Il Tassinaro (1983), si inventò di prendere a bordo il grande regista e di tenerlo in affettuoso ostaggio tutto il tempo che desiderava. Finalmente! 

Federico si prestò al gioco, ma non mancò di commentare sardonico e divertito: “Con la mia partecipazione speciale ha fatto mezzo film e con quella di Andreotti l’altra metà.” Lo punzecchiava: “Mi avevi detto che dovevamo scambiarci due battute, non che avrei dovuto tenere un comizio!” Però era contento per quell’omaggio sincero, adorante, di Albertone: tornavano a stare insieme come ai tempi eroici, ritrovava un profumo di casa, erano due fratelli che si incontrano dopo la lunga separazione di un viaggio a cui sarebbe stato impossibile rinunciare.


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