di Dario Cirrincione
Nell’ultima indagine dell’Istat sulla “percezione della sicurezza” non c’è traccia di “paura della criminalità organizzata”. I cittadini italiani intervistati dall’istituto nazionale di statistica, infatti, hanno altri timori. Nell’ordine: subire un furto nell’abitazione (60,2%), subire uno scippo o un borseggio (41,9%), essere vittima di aggressione o rapina (40,5%), subire il furto dell’auto (37%), essere vittima di una qualche forma di violenza sessuale (28,7%).
Se ci limitassimo a leggere i numeri appena citati, quindi, gli italiani si sentono al sicuro dalle mafie. Non c’è nessuno che abbia paura del traffico d’armi o di droga. Nessuno che tema le richieste di pizzo, i prestiti a strozzo, gli appalti pilotati e la corruzione. Non c’è nessuno che tema di essere colpito per errore da un proiettile vagante, sparato in pieno giorno tra le vie del centro città, per chiudere un regolamento di conti tra cosche rivali. Nessuno che temi il voto di scambio o l’implicita limitazione della libertà di poter acquistare un prodotto o un servizio senza alcun tipo di condizionamento. Ma è davvero così? Fortunatamente no, perché oggi sentirsi al sicuro dalle mafie è impossibile e a ricordarcelo sono i quasi 3mila studenti che hanno partecipato all’analisi svolta dal Centro Pio La Torre sulla percezione del fenomeno mafioso, giunta quest’anno alla dodicesima edizione. Per il 77,41% dei ragazzi intervistati i mafiosi si infiltrano nello Stato e per 4 ragazzi su 10 le mafie sono più forti dello Stato.
Spaventano la capacità di controllo del territorio che solo le organizzazioni criminali hanno; il potere punitivo di cui dispongono; la vastità dei patrimoni che possiedono e che permettono alle mafie – in alcuni territori – di diventare l’unica azienda presso cui trovare impiego. C’è un altro elemento che incute timore quando si parla di criminalità organizzata: il cognome. L’equazione è semplice: i figli di boss sono considerati boss di diritto anche se non vogliono, perché portano il cognome di chi negli anni ‘70, ‘80 e ‘90 ha scritto alcune tra le peggiori pagine della cronaca nera nazionale. Mafia, Camorra, ‘Ndrangheta o Sacra Corona Unita non fa differenza. Tutti aspettano che il figlio del boss debba diventare boss o che la figlia del boss debba contrarre matrimonio per stringere alleanze ed espandere il potere criminale della famiglia.
Ma se i figli dei boss volessero fare altro e rinunciare all’eredità criminale che spetta loro di diritto, la gente come reagirebbe? Sarebbe contenta o, in fondo, rimarrebbe quasi delusa? Siamo sicuri che tutti i figli dei boss oggi vivano sul modello cinematografico di “Genni Savastano?” Il mio cammino alla ricerca dei figli dei boss che hanno provato (o stanno provando) a sfuggire al loro destino è iniziato quasi 2 anni fa cecando di rispondere a domande come queste. Un viaggio che mi ha fatto attraversare l’Italia da Nord a Sud alla ricerca di questi “eredi” protagonisti consapevoli o inconsapevoli della storia della criminalità organizzata italiana. In “Figli dei boss – Vite in cerca di verità e riscatto” (ed. San Paolo, 224 pp., 17 euro) ho cercato di andare oltre le carte processuali e i preconcetti. Ho incontrato e intervistato, in un dialogo alla pari, una decina di “figli di boss” che hanno voluto mettersi in discussione, raccontando per la prima volta le loro vite e non quelle dei loro genitori. “Dottor Cirrincione – mi ha detto uno dei primi figli dei boss che ho incontrato per scrivere il libro – la mentalità non cambia. Noi siamo i figli del male, lo capisce vero? Figli del male! Noi non siamo persone. Io pago il fatto che sono figlio di mio padre. Lei vuole fare questo libro? È pronto a scontrarsi con un muro di gomma?”. Quella frase mi ha accompagnato tutti i giorni, durante la realizzazione del libro. Così come la voglia di trovare notizie, basandomi solo sulla cronaca dei fatti.
Tra coloro che hanno maggiormente ispirato questo lavoro c’è la figura di Rita Atria, che dopo l’uccisione di suo padre e di suo fratello Nicola aveva rivelato, al giudice Borsellino e ai sostituti Alessandra Camassa e Massimo Russo, aspetti estremamente interessanti sulle cosche mafiose del trapanese. Rita fu una delle prime figlie di boss a dire “no” all’eredità criminale di famiglia e la sua storia sintetizza meglio di altre la relazione che c’è tra senso di sicurezza e pace interiore. Rita era andata a vivere in località nascosta e sotto falsa identità, lontano dalla sua città d’origine e da un contesto che dopo le sue dichiarazioni alla magistratura aveva inasprito la pericolosità. Tutto ciò, però, non è bastato a darle sicurezza e una settimana dopo l’uccisione del giudice Paolo Borsellino in via d’Amelio a Palermo, Rita Atria decise di suicidarsi lanciandosi nel vuoto dal balcone della casa dove abitava a Roma. Seguendo le tracce dei sogni di Rita ho trovato la storia di sua nipote, Vita Maria Atria (figlia del boss di mafia Nicola Atria e dell’onorevole Piera Aiello, prima donna testimone di giustizia d’Italia) che ha scelto di essere intervistata per la prima volta dalla stampa ed essere tra i protagonisti del mio libro: un gesto che ha dato forza alla bontà di questo lavoro. Insieme alla sua storia ho raccontato quelle di chi oggi fa il cantante, il regista o l’impiegato. Ma soprattutto di coloro che cercando strade alternative a quelle criminali cerca lavoro e non lo trova perché, in più di un’occasione si sono sentiti dire “Uno con il tuo cognome non posso assumerlo”.