Uno psicodramma ha investito in questi giorni il Consiglio Superiore della Magistratura e tutta la magistratura associata. Dopo che le indagini avviate dalla Procura della Repubblica di Perugia nei confronti di un personaggio autorevole nella magistratura, Luca Palamara, già Presidente dell’Associazione Nazionale Magistrati e già componente del Consiglio Superiore della Magistratura, oltre che personaggio di spicco della corrente Unità per la Costituzione, hanno scoperchiato una serie di trame fra magistrati e politici volte a pilotare le nomine degli uffici direttivi della magistratura, favorendo i magistrati “amici” ed ostacolando quelli sgraditi, un magistrato membro del CSM si è dimesso ed altri quattro si sono “autosospesi”. Il 4 giugno, il plenum ha approvato un documento in cui i Consiglieri si dichiarano: “sgomenti ed amareggiati per (..) fatti che gettano grave discredito su un’istituzione che costituisce uno snodo fondamentale nell’architettura costituzionale, a presidio, nell’interesse dei cittadini, dell’autonomia e dell’indipendenza della giurisdizione, della sua credibilità, della sua autorevolezza.”
Se tutti concordano nel denunciare il marcio, il problema è l’interpretazione dei fatti nella loro valenza politica ed istituzionale. Il punto di partenza è lo scandalo del “potere diviso”, cioè quello snodo insuperabile di pluralismo istituzionale rappresentato dal sistema di indipendenza del potere giudiziario che, secondo il disegno costituzionale, non può essere assoggettato né condizionato dall’esercizio dei poteri politici di governo, né da nessun altro potere. Il controllo di legalità effettuato da una magistratura indipendente da ogni altro potere è la principale garanzia per la tutela dei diritti fondamentali che la Costituzione riconosce come inviolabili. Il Consiglio Superiore della Magistratura è l’organo deputato a garantire l’indipendenza dei magistrati, attraverso la gestione delle nomine, delle carriere, delle promozioni, dei trasferimenti e delle sanzioni disciplinari.
Fin dall’inizio della storia della Repubblica, l’ordinamento politico non ha accettato lo scandalo del potere diviso ed ha cercato di “addomesticare” l’esercizio della giurisdizione. Risale al 1980 il manuale Cencelli nel quale si dava atto che la nomina del Procuratore della Repubblica di Roma, in termini di potere, equivaleva a due Ministeri. Condizionare la nomina dei vertici della magistratura è sempre stato un obiettivo perseguito con tenacia dal potere politico, tuttavia in passato non esistevano i telefonini, le telecamere di sorveglianza e i trojan horse per cui non abbiamo saputo nulla delle trame intessute fra politici e magistrati servizievoli per pilotare le nomine. Non a caso la Procura di Roma fu definita il “porto delle nebbie” perché in essa venivano fatti confluire (anche con trucchi procedurali) processi molto delicati sotto il profilo politico, come il processo sullo scandalo della P2, che poi svanivano. Tuttavia all’epoca vi erano degli anticorpi perché le forze politiche d’opposizione erano attestate nella difesa del modello costituzionale. In seguito quando l’ex partito comunista si è avvicinato all’area del potere si è verificata una svolta. Nel suo libro “Magistrati” pubblicato nel 2009, Luciano Violante richiama la concezione della magistratura formulata quattro secoli prima dal filosofo inglese Francis Bacon, secondo il quale: «I giudici devono essere leoni, ma leoni sotto il trono». In altre parole l’esercizio della funzione giudiziaria deve essere compatibilizzato con l’esercizio del potere politico sovrano. Non v’è dubbio che il modello di giudice, leone sotto il trono, è quello preferito dal sistema politico. I leoni sotto il trono sono feroci verso chi è sgradito al Sovrano: l’esempio è quello di un PM siciliano che sequestrò una nave di una ONG, contestando al capitano la fantastica accusa di violenza privata nei confronti del Governo italiano per averlo “costretto” ad accettare lo sbarco dei migranti salvati nel Mediterraneo. Però questi leoni si trasformano in cagnolini a fronte degli abusi del Sovrano: l’esempio è quello di un altro P.M. siciliano che, a fronte della condotta di un Ministro che integrava astrattamente gli estremi del reato di sequestro di persona, ha chiesto l’archiviazione al Tribunale di Ministri, invocando – a contrario – la separazione dei poteri. Certamente al leone sotto il trono non verrà mai in mente di mordere la mano del sovrano.
Purtroppo questa concezione dei magistrati come “leoni sotto il trono” è presente in ampi settori della magistratura associata, specialmente nelle correnti di destra, per questo, per quanto sia riprovevole, non deve stupire più di tanto se emergono vicende che dimostrano la subalternità di alcuni magistrati all’esigenza di spezzoni del potere politico di scegliersi il leone giusto sotto il trono.
L’importante è reagire.
Bisogna evitare che il polverone sollevato da queste vicende sia utilizzato per legittimare una ancor maggiore ingerenza della politica sull’esercizio della giurisdizione, come sta avvenendo in queste ore, visto che il Viminale ha comunicato che metterà «sotto osservazione» i giudici che nelle ultime settimane hanno pronunciato sentenze contro provvedimenti emanati dal ministero dell’interno: che i leoni tornino subito sotto il trono!
I cittadini devono chiedere alla politica di rispettare l’indipendenza della magistratura, i magistrati non devono farsi intimorire dal dossieraggio annunciato da Salvini ma devono riscoprire l’orgoglio della funzione politica che è stata loro assegnata direttamente dalla Costituzione, quella di garantire, attraverso l’esercizio indipendente del potere giurisdizionale, la tutela dei diritti inviolabili dell’uomo.