1. Eliminazione del carcere per il reato di diffamazione a mezzo stampa. La sola sanzione pecuniaria rimarrebbe un deterrente pienamente sufficiente e allineerebbe l’Italia agli altri Paesi. Anche con l’abrogazione della pena detentiva, si deve comunque mantenere il “filtro” dell’udienza preliminare, per consentire un intervento del giudice in tempi più rapidi.
2. La rettifica deve essere considerata, diversamente da ciò che avviene oggi, un motivo di esclusione della punibilità. L’attuale disciplina della rettifica è del 1948 e già da tempo il Legislatore avrebbe dovuto modificarla considerando tutti i nuovi media. Ma rimane fondamentale prevedere con chiarezza che se il presunto offeso ha avuto modo di esercitare correttamente il suo diritto di rettifica, nessuno può subire sanzioni penali per ciò che ha scritto.
3. Introduzione per legge del principio (oggi affermato dalla giurisprudenza) che non commette reato chi pubblica, senza alterazioni, dichiarazioni altrui riportate letteralmente e in maniera riconoscibile (il c.d. virgolettato).
4. Introduzione di meccanismi per rafforzare il diritto al risarcimento del danno conseguente alla “querela temeraria”. Quando una querela viene archiviata o quando l’autore del “pezzo” viene assolto (ciò avviene spessissimo), gli attuali meccanismi per ottenere un risarcimento del danno per la temerarietà della querela sono tali per cui è molto difficile ottenere dal giudice il giusto ristoro.
5. Abolizione dell’istituto della riparazione pecuniaria. Chi si ritiene diffamato può sempre chiedere il risarcimento del danno. La previsione di un’ulteriore “riparazione pecuniaria” – istituto introdotto nel 1948 – rappresenta una irragionevole duplicazione.
6. Estensione della prerogativa del segreto professionale anche ai giornalisti pubblicisti. Oggi gli editori utilizzano sempre di più giornalisti pubblicisti come dei veri e propri professionisti. Anche i pubblicisti, quindi, debbono potere usufruire della prerogativa sul segreto professionale.
7. Molti giornalisti e molti editori sono costretti a subire, in sede civile, richieste di risarcimento danni assolutamente spropositate (anche milioni di euro). E’ vero che il più delle volte i giudici, se ritengono diffamatorio l’articolo, riducono il risarcimento; ma è altrettanto vero che la richiesta di somme elevatissime è spesso finalizzata ad intimidire giornalista ed editore e quest’ultimo è comunque obbligato ad iscrivere in bilancio l’importo, con ogni relativa conseguenza. L’introduzione del seguente principio potrebbe contenere sensibilmente le domande: se in un processo civile risulta che la parte soccombente ha agito con mala fede o colpa grave e nel contempo risulta accertata la corretta pubblicazione della rettifica prima dell’instaurazione del giudizio o la sua omessa richiesta, il giudice, su istanza dell’altra parte, la condanna oltre che alle spese di causa, al risarcimento dei danni da liquidarsi, anche in via equitativa, ma comunque in misura non inferiore al 10% della somma richiesta a titolo di risarcimento.
(Fnsi e Ordine Nazionale dei giornalisti in collaborazione con Libera Informazione e Articolo21)