Trentasei anni. Tanti ne sono trascorsi dalla scomparsa di Mirella Gregori e dal mistero sulla sua sorte. Al punto che è pressoché inevitabile supporre che un silenzio così prolungato celi una verità pesante e dolorosa. Eppure il cold case di quest’adolescente sparita a Roma il 7 maggio 1983, anche a distanza di tanto tempo può avere una fine. A patto di scandagliare i suoi universi umani, individuando soprattutto in quali di essi vi fossero soggetti maschili a conoscenza della sua infatuazione per un coetaneo chiamato Alessandro. Perché quel nome è la chiave per risolvere il “giallo”, vista la sua centralità nella vicenda e la sua ricorrenza nella vita di Mirella.
“Alessandro” è l’identità millantata dal citofonista che quel fatale pomeriggio attirò la ragazza in trappola, inducendola a raggiungerlo nella vicina Porta Pia con l’illusione di trovarvi l’Alessandro suo compagno di classe solo in terza media, per il quale nutriva una simpatia. Il nome “Alessandro” balena anche negli scritti privati di Mirella e non senza generare interrogativi. Domenica 25 gennaio 1981 lei era con le amiche al “Viking”, una discoteca dell’epoca situata a via Sirte, quartiere Africano. E sul suo diario quel giorno appuntò “Ho conosciuto Alessandro” con annessa espressione d’apprezzamento. La scritta “Alessandro” ritorna il 22 marzo, per l’onomastico (26 agosto) e per il compleanno dell’Alessandro di scuola, che tra l’altro abitava a un paio di chilometri dal “Viking”. Ipotizzabile che queste citazioni rimandassero a lui, però perché parlare di “conoscenza” se erano in classe già da quattro mesi? Forse quello della discoteca era un altro “Alessandro”? Analizzando le sue rubriche dal 1981 al 1983, se ne trova uno solo: quello di scuola. C’è però da registrare l’assenza, fra quei contatti, anche di altri nomi maschili, mai approfonditi e invece ricorrenti nella diaristica della ragazza riguardo a uscite di gruppo, alcune delle quali in macchina, quindi con persone maggiorenni.
Col diario 1981/82, primo anno di superiori, “Alessandro” scompare. Complice i diversi indirizzi scolastici di Mirella e Alessandro e due flirt della giovane, quel nome sembrerebbe svanito dalla sua mente. Sennonché le bastò risentirlo pochi secondi, come quel 7 maggio, per volerlo rivedere anche solo per un saluto. Segno che, pur non avendolo più scritto, Mirella lo aveva ancora in testa e le sarà capitato di rammentarlo a voce. Dove? Negli ambienti da lei più frequentati. Quali? La parrocchia di S. Giuseppe al Nomentano e l’ex bar “Italia”, situato sotto casa sua, nel quale la ragazza trascorreva molto tempo libero insieme a Sonia, la figlia dei gestori del locale, che fra i suoi clienti aveva anche uomini in età adulta. Come “l’ignoto signore degli aperitivi”, il quarantenne segnalato dalla madre di Mirella agli inquirenti perché notato intrattenersi a più riprese con la figlia e con l’amica. Almeno fino al giorno della sparizione. Dopo, la donna lo incrociò solo in un’occasione, dicembre 1985, fra la vigilanza di Wojtyla, che la ricevette in udienza. In quel bar poi gravitavano anche individui poco raccomandabili. Almeno a detta di Vladimiro F., allora portiere di un hotel della zona, che il 28 agosto 1983 fece mettere a verbale: “Non frequento più molto spesso il “Bar” […] perché non mi piace la gente che vi bazzica” .
Assemblando questi indizi e altri di rilievo, ci sarebbe da stupirsi se qualche adulto, respinto da quella quindicenne carina e curiosa, avesse architettato una diabolica vendetta a sfondo sessuale facendo leva su quel nome, “Alessandro”, che sapeva essere un suo punto debole? O che, sempre per ragioni inerenti i piaceri della carne, l’avesse ghermita per conto di terzi che non volevano rovinarsi la reputazione esponendosi in prima persona? Secondo quanto si legge fra gli atti dell’inchiesta giudiziaria, l’empio adescatore avrebbe chiesto a Mirella di vedersi a piazza della Croce Rossa, cioè poche centinaia di metri più avanti rispetto a dove poi s’incontrarono, ma lei avrebbe rifiutato perché troppo lontana. Lui non avrebbe fatto una piega, proponendole Porta Pia. Cioè a trecento metri dalla sua abitazione di via Nomentana. Se ne deduce che fosse un uomo molto sicuro di sé e con un forte ascendente sulla vittima, al punto da convincerla a seguirlo con una scusa qualsiasi e senza ricorrere a minacce che, anzi, avrebbero mandato a monte il piano perché lei, forte di trovarsi in una zona frequentata, si sarebbe messa a gridare.
Su una sua agenda, al 6 marzo 1982, Mirella annotò: “Un segreto è qualcosa che la gente considera o troppo insignificante per poter essere rivelato, o troppo importante per non parlarne” . A parte chiedersi a che cosa si riferissero, quelle parole rilette oggi hanno il suono beffardo e inquietante del presagio. Di certo, d’insignificante, nel suo dramma, c’è solo il silenzio. Perdurante e straziante. Ma che con una mirata indagine, salpante dai diari e navigante fra i mari sociali di questa studentessa amante delle canzoni di Baglioni, è ancora possibile rompere. Una volta per tutte. Dum spiro, spero.