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Intolleranza, società malata. Allarme degli psicoanalisti

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Per luoghi comuni sono visti come professionisti chiusi nei loro studi a curare le nevrosi di uomini e donne che una psicoterapia se la possono permettere; intellettuali; un po’ aristocratici; talvolta aspiranti guru che dispensano consigli su argomenti di carattere affettivo. Che gli psicoanalisti in realtà siano legati alla realtà e che questa oggi inquieti è provato da un fatto: che i «curatori d’anima» (altro loro attributo) siano usciti allo scoperto in massa e abbiano espresso denunce su eventi che sconvolgono vita quotidiana, opinione pubblica, assetti politici nazionali ed europei, cioè: migranti, sicurezza, razzismo, xenofobia, antisemitismo, paure alimentate da una politica che cerca facili consensi.

Attraverso le Società Analitiche, superando antiche distinzioni di Scuole e appartenenze, gli eredi di Freud e Jung hanno scritto al presidente Mattarella in qualità di garante dei diritti umani e civili e della Costituzione perché si ascolti «un’altra Italia che esiste» e che inizia ad esprimere il «proprio profondo dissenso» (Società psiconoanalitica italiana, Spi, freudiani). Intanto hanno mobilitato gli iscritti con raccolta di firme per promuovere iniziative «a tutela della salute psichica individuale e collettiva» (Centro italiano di psicologia analitica, Cipa, junghiani).

È la prima volta che gli psicoanalisti lanciano un allarme di tale portata (si esprimono in termini gravi: «clima di intolleranza e disumanità», «razzismo crescente», timore che si generi «una società psicopatica, paranoica e autoritaria»), mettendoci la faccia con posizioni pubbliche, istituzionali. Segno che sensibilità dei singoli, crescita democratica nelle rappresentanze professionali, senso civico rinnovato stanno contribuendo a cambiare l’universo della cura individuale e lo aprono ai bisogni storici collettivi.

Un consistente numero tra gli oltre mille operatori che hanno firmato i documenti sono impegnati in prima persona nella cura di profughi, richiedenti asilo, traumatizzati da guerre, abusi sessuali, sfruttamento, torture, prigioni disumane; lo fanno in aggiunta al lavoro negli studi privati dove trattano i disagi degli italiani. Come se la cura dei migranti stesse provocando una sorta di ribaltone del «prima gli italiani» rivendicato da una certa parte politica e rimettesse al centro un «prima l’umanità»; cioè quell’uomo, quella donna, quel bambino prima del Paese da cui arrivano, colore della pelle, fede.

L’esperienza sul campo coi patimenti delle persone e confronto con ombre e angosce che abitano la psiche di singoli e gruppi rendono gli appelli degli psicoanalisti opportunità di: nuovi orizzonti per il dibattito pubblico; occasioni di ripensamenti; vie d’uscita onorevoli per una politica che non resti prigioniera di simmetrie, ideologie, consensi ottenuti su paura e proiezioni sull’altro «invasore e nemico».

Ciò che accade prospetta una sorta di rivoluzione culturale. Emerge un fiume carsico. Freud e Jung, ciascuno a modo suo e per quanto i tempi consentivano, avevano riconosciuto i nessi profondi tra psiche individuale e collettiva, le conseguenze prodotte su libertà personali e destini comuni delle scelte di leader e governi poi condivise anche dalle masse. Nel passato recente in Italia rispetto a chi, tra i seguaci dei fondatori preferì richiudersi nei propri studi e alla mentalità corrente sospettosa verso la psicoanalisi e tesa a rinforzare l’individuo rispetto al sociale, ci son state eccezioni importanti. Si pensi a Cesare Musatti in Comune a Milano nelle fila del Psiup; a Franco Fornari, alla sua «Psicoanalisi della situazione atomica», sul rischio di arsenali nucleari; a Federico Fellini. Il regista, l’«analizzato» junghiano più celebre, non ha mai fatto mistero della sua ricerca sull’inconscio e delle conquiste in umanità cui possono portare il confronto con le parti oscure e l’affidamento a sogni e immaginazione.

Sotto la spinta delle urgenze le prese di posizione degli psicoanalisti oggi esprimono tre novità. La prima: la consapevolezza che semplificare una realtà complessa, come fa certa politica, rischia di far esplodere fenomeni sociali disgreganti e scatenare guerre tra poveri in periferia. La seconda sta nel proposito evidente di avviare un circuito virtuoso, ponendosi come esempio di assunzione di responsabilità da parte di altre categorie che operano nel sociale e fare sistema. La terza traspare dal modi di motivare le denunce. Queste sono atti d’accusa, ma contengono in sé possibili correzioni. Se «il nostro lavoro quotidiano ci porta continuamente a misurarci con angosce, paure, sofferenze che sono figlie di un clima culturale spaventoso e spaventate» il problema sarà di unirsi per creare un clima diverso organizzando «insieme iniziative pubbliche di confronto, discussione, testimonianza» (Cipa). Se «la disumanità è un rischio costante per l’umano in cui si può scivolare quasi inavvertitamente […] ancor più necessario è riuscire ad ascoltare anche quello che si cela sotto la paura, per trasformarla in possibilità di contatto con se stesso e con l’altro» (Spi). Il denominatore, insomma, è trasformare se stessi e le situazioni, non solo criticare; è riconoscersi «comunità di vita», come dicono oggi i freudiani, ovvero «comunità consapevole» in cui gli individui si realizzano, diceva Jung ai suoi. Credere alla vita comporta di essere «per» qualcuno o qualcosa. Il disporsi «contro», invece, avvia a processi di possibile distruttività per sé prima ancora che per gli altri. Derive alla lunga difficili da controllare. Ce la si può fare a uscire dalle crisi se si è vigili in umanità.


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