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Gian Carlo Caselli e Donato Ungaro insieme a Torino per parlare di mafia e liberta’ d’espressione del Teatro delle Albe

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Si sono rivisti dopo molti anni a Torino, la stessa città che li aveva fatti conoscere: il giornalista Donato Ungaro e l’ex magistrato Gian Carlo Caselli sono stati invitati dal Teatro Piemonte Europa al Teatro Astra (nella settimana dedicata al Teatro delle Albe di Ravenna) a parlare sul tema: “La mafia dal sud al nord” in collaborazione con l’Ordine dei giornalisti del Piemonte. Il dibattito (moderato da Francesco Daniele coordinatore II Commissione della Circoscrizione di Torino)  ha preceduto lo spettacolo “Va pensiero” del Teatro delle Albe e  ispirato a Donato Ungaro, un ex vigile urbano del Comune di Brescello e giornalista d’inchiesta. La sua carriera inizia indossando la divisa di carabiniere: «Ho varcato il portone d’ingresso  della Caserma Cernaia di Torino il 6 settembre 1982, tre giorni dopo l’assassinio del generale Carlo Alberto Dalla Chiesa. E  gli alamari me li sento ancora addosso come in servizio durante il processo alle Brigate Rosse e fu  così che feci la conoscenza del giudice Caselli del quale mi sento onorato della sua presenza». Magistrato in pensione dal dicembre 2013, ha iniziato la sua carriera nel 1967 dove ha ricoperto il ruolo  di giudice istruttore a Torino con le inchieste sul terrorismo delle Brigate Rosse e Prima Linea, Gian Carlo Caselli è stato anche presidente della Corte d’Assise. Nel 1992 dopo la morte di Falcone e Borsellino ha chiesto di essere trasferito a Palermo, dove ha diretto la Procura. Qui si è occupato di mafia. Ha concluso la sua carriera  come Procuratore generale di Torino e poi Procuratore della Repubblica, dove ha coordinato le indagini sulle infiltrazioni della ‘ndrangheta in Piemonte. Attualmente dirige in Coldiretti la segreteria scientifica dell’Osservatorio sulla criminalità nel settore agroalimentare.

La presenza autorevole di questo magistrato si è rivelata preziosa per riflettere quanto sia importante capire l’evoluzione della criminalità organizzata, nei confronti di un sistema sociale ed economico a rischio infiltrazione e corruzione, come rivelato dalle recenti indagini in Val D’Aosta, Emilia, Veneto e prima ancora in Piemonte.  La memoria storica di Caselli è stato determinante per fare chiarezza sull’interpretazione del fenomeno mafioso e su quanto sia retrodatato l’allarme dell’infiltrazione nelle regioni del Nord Italia, inascoltato o non percepito come avrebbe dovuto fare lo Stato per primo. «Il negazionismo sull’esistenza della mafia è un fatto incontestabile e la legalità in Italia non è sempre presente. Ci sono politici che danno il cattivo esempio  – dichiara Giancarlo Caselli con la sua abituale fermezza e onestà intellettuale- , mentre coloro che hanno dimostrato di fare il loro dovere hanno restituito onore e credibilità allo Stato. Donato Ungaro è uno di questi e quando diciamo lo Stato siamo noi, ecco che il coraggio di questo uomo appartiene a questa affermazione. Bisogna contrastare la propaganda delle mafie che si fonda sulla violenza, l’intimidazione e la propaganda di se stessa.  Per capire come sia difficile eliminare ogni residuo di pensiero, nel negare l’evidenza dell’esistenza stessa delle mafie, ha suscitato stupore tra il pubblico presente quando Caselli ha ricordato uno sconvolgente commento rilasciato di un magistrato di Cassazione, Giuseppe Guido Lo Schiavo, pubblicato sulla rivista giuridica “Processi” :«”… Si è detto che la mafia disprezza polizia e magistratura: è una inesattezza. La mafia ha sempre rispettato la magistratura, la Giustizia, e si è inchinata alle sue sentenze e non ha ostacolato l’opera del giudice. Nella persecuzione ai banditi ed ai fuorilegge ha affiancato addirittura le forze dell’ordine” (l’articolo fu scritto quando nel 1954 morì Calogero Vizzini, il capo della mafia siciliana di quell’epoca, ndr). Questo vuol dire che per lo Stato italiano la mafia non esiste – ha proseguito Caselli– (Isaia Sales sul sito Il mattino.it scrive che fu considerato “normale l’articolo perché tale era la percezione che le classi dirigenti della Sicilia e dell’Italia avevano di Cosa nostra. Il suo parere era condiviso da un notevole numero di magistrati che non aveva timore di dichiarare pubblicamente che la mafia non solo non era un problema ma addirittura era una «forza d’ordine», un’organizzazione che collaborava con le forze di sicurezza dello Stato, cioè anche con i magistrati”, ndr). Oggi esiste però l’articolo 416 bis del codice penale che riporta il reato di associazione mafiosa introdotto nel 1982 dopo la morte del generale Dalla Chiesa ma il negazionismo non finisce qui – prosegue lapidario Caselli – visto che si è voluto negare il concorso esterno per associazione mafiosa che non c’è nel codice, ma esiste comunque nell’articolo 110 e 1930 che cita il concorso in un delitto specifico. Esiste anche un negazionismo che si rifiuta di credere all’espansività e all’esistenza degli insediamenti nelle regioni del Nord». Il nome di Dalla Chiesa viene citato  quando lo definisce«un servitore dello Stato che aveva capito già nel 1982 quanto fosse importante non sottovalutare il pericolo della mafia, rispondendo ad un’intervista che rilasciò a Giorgio Bocca per Repubblica una settimana prima di essere assassinato: “La mafia sta nelle maggiori città italiane dove ha fatto grossi investimenti edilizi e gestisce il riciclaggio di denaro sporco. La parola chiave è riciclaggio”».

Donato Ungaro  nel commentare quanto dichiarato da Caselli ha poi precisato come sia evoluta la cultura mafiosa negli anni e non più circoscrivibile in poche zone dell’Italia: «Oggi la mafia agisce attraverso la comunicazione e gestisce gli appalti là dove c’è denaro. Non agisce mai senza non trova un guadagno. Quando io ho iniziato a segnalare le attività di mafia nel mio territorio non sono stato creduto ma nel 2015 l’operazione AEmilia ha rivelato l’esistenza capillare della criminalità organizzata e un mio collega mi disse: “ti dobbiamo delle scuse perché non ci eravamo capiti”. Sono state comminate pene per 1200 anni con il rito tradizionale e 400 anni con quello abbreviato». Parlare di mafia significa parlare anche di vittime (il 21 marzo a Padova si celebra la Giornata nazionale della Memoria e del Rircordo delle vittime per mafia) e Caselli ha ricordato come siano «eroiche le vittime della mafia che hanno pagato con la vita l’impegno nel difendere la legalità. Ci sono però anche altre vittime invisibili come quelli che tengono la schiena dritta. Salvatore Lupo (professore di storia contemporanea all’Università di Palermo è uno degli studiosi più competenti in materia di mafia, ndr) ha scritto che le “vittime di mafia conosciute e sconosciute sono state rivoluzionarie per aver servito lo Stato». Torino è la città in cui una di queste “vittime rivoluzionarie” ha visto morire nel 1983 il Procuratore della Repubblica Bruno Caccia: «assassinato dall’ndrangheta e questo delitto fu l’unico che l’organizzazione criminale calabrese commise fuori dalla sua regione – ha ricordato Caselli – e quando Angelo Forgione (giornalista, scrittore e storico del meridione, ndr) scriveva che l’andrangheta è presente in Piemonte  è stato accusato di diffamare la Regione. L’operazione Minotauro in Piemonte ha dimostrato quanto fosse vero ciò che Forgione evidenziava. 150 arresti e 23 condanne confermate dalla Corte di Cassazione (nella sentenza è scritto: “La ‘ndrangheta a Torino è autonoma e violenta”, ndr). Ci sono ancora molta difficoltà nel superare questa opinione negazionista».

L’incontro si è concluso con l’intervento di Marco Martinelli (che insieme a Donato Ungaro, l’attrice Ermanna Montanari del Teatro delle Albe e il giornalista Marco Belpoliti) è stato querelato per diffamazione dall’ex sindaco di Brescello Ermes Coffrini per aver scritto e messo in scena “Saluti da Brescello”.  Massimo Mazzetti, assessore alla Cultura, Politiche giovanile e per la legalità della Regione Emilia Romagna ha pubblicato un video su facebook a sostegno dei querelati, dichiarando con fermezza il suo impegno in loro difesa, personalmente e come rappresentante delle istituzioni: « … Non si querela la verità ! E non ci sarà nessuna azione temeraria che ci fermerà. Nessuna azione intimidatoria. Sono disposto a pubblicare se è necessario il testo dello spettacolo e farmi querelare per questo!». L’assessore Mazzetti ha letto anche la relazione della commissione ministeriale che ha poi portato allo scioglimento del Comune di Brescello per ordine prefettizio.

«Il nostro modo di fare teatro non è né sociale né civile ma è teatro in quanto tale capace di raccontare  e che mette insieme l’anima e il mondo e interroga i loro cuori. Un atto di bellezza che interroga l’orrore. Mette insieme società e mistero, le due assi che sono la Polis e il metafisico, terribilmente incrociate tra di loro. Lo spettacolo che portiamo nei teatri – ha spiegato Martinelli – mette il dito nella piaga della nostra terra che noi amiamo.  Quando abbiamo chiesto al Gruppo dello Zuccherificio (associazione culturale per la legalità, la Costituzione, e libera informazione di Ravenna,ndr) di consigliarci una storia da cui trarre ispirazione ci hanno indicato quella accaduta a Donato Ungaro, eroe e antieroe. Abbiamo pensato a Giuseppe Verdi che sogna la libertà (nello spettacolo un coro interpreta arie verdiane, ndr), e già Dante Alighieri parlava di “serva Italia”. Ci chiedono il perché il teatro deve fare questo, oltre alle inchieste giornalistiche e quelle della magistratura, nel raccontare fatti accaduti e reali».


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