BASTA VIOLENZA SULLE DONNE - 25 NOVEMBRE TUTTI I GIORNI

MAGHI (l’ottavo capitolo del “Glossario Felliniano”). Verso il Centenario della nascita di Federico Fellini

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La mattina sul presto, uscendo di casa, Fellini si infilava al Caffè Canova e quando riemergeva in Piazza del Popolo gli correvano incontro le zingarelle per leggergli la mano e predirgli la fortuna della giornata; Federico le ascoltava divertito, compensandole con un biglietto da mille lire. Frequentare Fellini significava incamminarsi a passi progressivi sul sottile confine tra due dimensioni diverse a adiacenti. Il suo set era il rifugio di molti sensitivi che si aggiravano per la Capitale: cartomanti, veggenti, radioestesisti, occultisti, telepati, paragnosti, ipnotisti. 

Tra loro c’era un piccolo elfo deforme, si chiamava Vincenzo Caldarola e viveva di elemosina nei pressi di Piazza del Popolo, dormendo sotto i ponti e aggirandosi come un clochard carico di buste di plastica, stringendo in pugno un bastone ricurvo da pastore. Uno sgorbio umano. Federico gli fece interpretare l’emiro di Amarcord, che arriva al Grand Hotel col codazzo del suo harem protetto dagli àscari armati di scimitarre. Indimenticabile (vedi alla voce Diversità).

Era una creatura primitiva, un sannita dei tempi antichissimi dall’eloquio quasi incomprensibile, ma sapeva leggere la mano. Non tanto basandosi sulle linee codificate da un’antica arte divinatoria a lui giunta per tradizione orale, quanto piuttosto soffermandosi sulla consistenza della pelle, il calore, gli avvallamenti, i rilievi, le pieghe. Prendeva la mano tra le sue e la palpava come farebbe un cieco, cercando nell’architettura anatomica le risposte alle interrogazioni. Sembrava percorrerla come una carta topografica e ne ricavava spesso intuizioni impensabili. A volte si serviva di quella tecnica per accarezzare le belle ragazze che restavano invischiate nella sua ragnatela; sembrava un viscido e perverso coboldo del bosco, un ermafrodita, un eunuco, ma a dispetto dell’apparenza aveva una natura spiccatamente sensuale, e se le consultanti lo lasciavano fare, si avventurava in improvvise indecenti incursioni, che accompagnava a grugniti rauchi di soddisfazione.  Alcune volte dalle zone meno illuminate del set, al riparo dei tramezzi di legno, si alzavano gridolini improvvisi, o strepiti risentiti, ma anche gemiti soffocati. Altre volte, con la promessa di rivelazioni più recondite, si allontanava trascinando con sé per mano qualche comparsa ingenua e piacente e con lei si imboscava dietro gli ammassi del materiale di scena. Poi riemergeva dal buio con al braccio i suoi eterni sacchetti di plastica, rigonfi e penzolanti, ruminando chissà cosa tra i denti; tenendo in mano  le cinque o diecimila lire del compenso che scrutava nella penombra prima di riporre in una saccoccia dei suoi calzoni sformati, trattenuti alla vita con uno spago. Quasi nessuno gli negava quell’obolo in cambio di una strampalata preveggenza, e per la durata delle riprese Caldarola aveva l’esistenza assicurata. 

I maghi e chiaroveggenti non erano sempre gli stessi, cambiavano di film in film, come i giullari alla corte mobile dell’imperatore. 

Durante la lavorazione di Roma comparve a Cinecittà per varie settimane un individuo dall’aria impiegatizia, certo Mario Baglivo, che si accreditava per “somatologo”, forniva cioè responsi esaminando la conformazione e le caratteristiche del corpo. Mi diagnosticò rapidamente una tonsillite cronica che comportava dei rischi (soffrivo infatti di una ipertrofia tonsillare con frequenti infiammazioni, tanto che in seguito fui costretto ad operarmi). Indovinò dai sintomi la mia posizione nel sonno (dormivo allora preferibilmente prono) esortandomi a correggerla, magari con l’aiuto di due cuscini ai lati del corpo che mi impedissero di girarmi. Mi anticipò il giovamento che ne avrei ricavato, ed era tutto esatto. Una volta facendomi tenere i palmi tesi in avanti si spinse a predirmi il futuro. Tratteggiò un quadro incoraggiante, stabilì alcuni traguardi; volle addirittura metterli a raffronto con quelli di un altro assistente, Paolo Pietrangeli (cantautore della protesta sessantottina e in seguito regista televisivo dei programmi di Maurizio Costanzo) che si prestò anch’egli a mostrargli i palmi aperti, ma controvoglia; da fervente materialista marxista ostentava di non crederci, ma alle prime divinazioni si sottrasse in fretta, allontanandosi assai turbato.

Sulla via Tiburtina, all’altezza di via Fiorentini, andavamo a trovare una tale Luciana che viveva al piano terra ammobiliato di un caseggiato popolare, sembrava l’interno di un romanzo di Pasolini. Ci riceveva nelle ore in cui era sola perché viveva insieme alla figlia sposata con un carabiniere e il genero, appartenendo alle forze dell’ordine, la minacciava spesso di arrestarla per ciarlataneria, diffidandola dal continuare nella sua attività truffaldina. Invece devo riconoscere che era molto dotata. E anche pericolosa, perché non aveva diaframmi, diceva tutto quello che percepiva e da cui veniva bombardata a casaccio. Doppiamente pericolosa perché la sua specializzazione consisteva nel riconoscimento precoce delle malattie. Appena aveva davanti a sé il consultante ne avvertiva la patologia somatizzandone i dolori nel proprio corpo. Era impressionante. Una volta ci venne incontro zoppicando perché Federico aveva subìto una distorsione alla caviglia. Si sedeva al tavolo a parlava in continuazione come sospinta da una compulsione intrattenibile; gettava anche le carte sul tavolo ma si stancava prestissimo di consultarle seguendo a vanvera un suo pensiero contorto, rivolgendo domande senza attendere risposta, riversando indiscriminatamente su chi le stava di fronte una massa informe e tumultuosa di informazioni che tuttavia contenevano precisi episodi della sua esistenza. Se provava forti fitte di dolore si interrompeva per un momento, come un medium, prima di cominciare a nominare malattie anche gravissime. Le persone che pure facevano la fila alla sua porta, avevano paura di quel diluvio incontrollato di parole che potevano decretare anche condanne senza appello. 

Una volta ci trascinò in un terribile imbarazzo. Le portammo una ragazza giovane e bellissima che voleva decifrare il comportamento di un suo fidanzato. Appena si sedette Luciana elencò in un cupo rigurgito le volte che aveva abortito, come quando e perché. “Mi sbaglio? Mi sbaglio?” Continuava a chiederle meccanicamente senza aspettare conferma, mentre assestava sciabolate. L’altra era diventata pallidissima e aveva sfiorato il collasso. Smettemmo di andarla a trovare, era davvero troppo rischioso.

Molto più amabile era Barbara Fortuny (nome d’arte), che abitava nei quartieri alti, era una signora sensuale leggermente fané, dalla massa crespa di capelli biondi, il corpo generoso ed elegante. Riceveva nel suo appartamento stravagante a cui si accedeva da un cortile ampio e rigoglioso di palme, di vegetazione esotica, imboccando complicati passaggi e strette ripidissime scalinate. Una volta arrivati si restava avvolti dagli aromi degli incensi, e si entrava in un atrio piacevolmente sovraffollato di chincaglierie, con l’impressione di mettere piede nella vera dimora di una maga di rango. Sfoggiava modi squisiti e una voce musicale, conosceva l’arte di mettere l’ospite a proprio agio, di colmarlo di cortesie. Era una persona istruita, sicuramente imbevuta di psicanalisi junghiana, e sapeva leggere magistralmente i tarocchi. Poneva particolare attenzione al carattere del consultante, evitava qualsiasi approccio angoscioso, al contrario tendeva a recuperare anche gli auspici più funesti in un ordine di generale armonia. Volteggiava come in una danza leggera fra gli scogli del destino, disegnando un arazzo accurato da analizzare insieme, per le buone e le cattive notizie. Era molto rassicurante e gioiva delle fortune in arrivo. Una sera che con Federico andammo da lei – non di rado ci tratteneva anche per una cenetta – mi predisse che in capo a pochi giorni, forse neppure una settimana, sarebbe giunta una lettera che mi invitava a recarmi negli Stati Uniti. Ne ridemmo di gusto, non sapevo proprio a cosa potesse mai riferirsi il presagio e lasciammo cadere l’argomento. La lettera arrivò davvero, da una università dell’Illinois che richiedeva la mia presenza per un corso di lezioni sulla sceneggiatura cinematografica. E fu la prima volta che misi piede negli Stati Uniti, sospinto dal capriccioso alito del fato.

Federico aveva ragione quando sosteneva: “Tra noi e il mondo sconosciuto ci divide appena una parete di carta velina, oltre la quale pulsa una vita parallela. E’ una barriera così sottile che a volte da quel mondo impalpabile giungono brusii, parole disperse nell’aria, miraggi, indecifrabili segnali; possono crearsi delle smagliature che ci permettono di intravvedere qualcosa”.

Pier Paolo Pasolini aveva scritto in un articolo: “Avevo la netta percezione che Fellini possedesse qualche potere magico.”


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