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Rinunce e ripensamenti di un cinico. ‘Serotonina’ di Michel Houellebecq, ed. La Nave di Teseo

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Il protagonista di Serotonina, il nuovo romanzo di Michel Houellebecq è un «uomo occidentale nella sua età di mezzo, al riparo dal bisogno per qualche anno, senza parenti né amici, privo sia di progetti personali sia di veri interessi, profondamente deluso dalla sua vita professionale precedente, avendo affrontato sul piano sentimentale esperienze diverse ma che avevano in comune il fatto di interrompersi, privo in fondo sia di motivi per vivere sia di motivi per morire». Un uomo che dopo aver scoperto la a dir poco eccentrica vita sessuale della giovane compagna giapponese (ninfomane e dedita alla zoofilia), decide deliberatamente di scomparire, abbandonando anche il lavoro di agronomo per il Ministero dell’Agricoltura, e di andare a vivere in una camera d’albergo, rigorosamente per fumatori.

Potrebbe essere l’inizio di una nuova vita ma Florent-Claude Labrouste, questo il nome dell’uomo, è terribilmente depresso, tanto da far fatica anche a provvedere alla propria igiene personale, motivo per cui si rivolge ad un bizzarro medico (che a un certo punto del romanzo arriva a consigliargli, letteralmente, di andare a puttane) dal quale si fa prescrivere un antidepressivo di nuova generazione, il Captorix, capace di stimolare la produzione di serotonina, l’ormone della felicità. Unico inconveniente: questo farmaco produce come effetto collaterale più comune l’inibizione della libido e quindi l’impotenza. Ma non basta la menomazione provocata dal Captorix a spiegare – e a determinare – la condizione di Labrouste: l’impressione è che lui abbia volontariamente scelto una sorta di autocastrazione, decidendo di rinunciare a tutto, scegliendo, di fatto, di non avere un futuro. L’effetto collaterale del farmaco è a questo punto più che altro un alibi dietro il quale è comodo per il protagonista nascondersi. Il Captorix «non dà alcuna forma di felicità, e neppure di vero sollievo, la sua azione è di tipo diverso: trasformando la vita in una serie di formalità, permette di raggirare. Pertanto aiuta gli uomini a vivere, o almeno a non morire – per qualche tempo».

Tuttavia il suicidio non è l’obiettivo immediato, prima Labrouste ripercorre il suo passato, soprattutto le sue storie d’amore e in particolare quella con Camille, finita a causa di una sua stupida scappatella di nessuna importanza. Camille – il suo ricordo, ma anche la sua ricerca – è il fantasma che aleggia per tutto il romanzo. L’amore per e con Camille viene visto come l’unica possibile felicità. Fino a un vero e proprio momento di follia del protagonista, un lucido e calcolato delirio, un freddo vaneggiamento durante il quale Florent arriva a concepire un piano agghiacciante pur di riaverla tutta per sé. Ma è solo – e questa volta per fortuna – un progetto abortito, un piano che non sarà capace di mettere in atto, perché il protagonista del romanzo di Houellebecq è in fondo, nel bene e nel male, un inetto: cinico, sprezzante, nichilista, ma fondamentalmente inetto. Un po’ per scelta propria e un po’ a causa delle circostanze. Anche l’amore, infatti, è un treno che passa e bisogna essere pronti a saltarvi sopra al momento giusto, non c’è spazio per i ripensamenti postumi.

Specie quando l’amore in questione ha i tratti della purezza più assoluta, come creatura pura è Camille che quando scopre il tradimento di Florent non gli rivolge neppure un rimprovero, semplicemente piange, piange in modo irrefrenabile e silenzioso, per poi fare i bagagli e andarsene. Camille, per la quale il tempo sembra non essere passato affatto, e che a differenza delle altre partner di Labrouste che recano sul volto e sui corpi i segni impietosi degli anni che avanzano, si mantiene fresca e giovane: «Camille era a una ventina di metri da me, non di più, non era cambiata, fisicamente non era cambiata per niente, era spaventoso, ormai aveva superato i trentacinque anni e aveva ancora l’aspetto di una ragazzina di diciannove». Altro esempio di amore puro e assoluto, totalizzante ed esclusivo, al punto da non risultare secondo neanche all’amore per un figlio, è quello che ha unito per quarant’anni i genitori di Florent: «insieme formavano un cerchio magico, soprannaturale (il loro livello di comunicazione era davvero sbalorditivo, sono sicuro di aver assistito ad almeno due casi di evidente telepatia tra loro) nel quale non ero mai entrato neanche per un istante». I due scelgono di darsi insieme la morte quando a lui viene diagnosticato un tumore maligno al cervello e saranno inumati nella stessa tomba.

Serotonina non è però solo un libro sull’amore; come sempre, in tutti i suoi romanzi, Houellebecq non si limita a registrare le tematiche di attualità ma le anticipa, e molti esegeti del suo nuovo libro hanno voluto vedere nelle pagine dedicate alle proteste degli agricoltori e degli allevatori francesi messi in ginocchio dalla globalizzazione un’anticipazione della rivolta dei gilet gialli. Comunque sia, Houellebecq si mostra solidale con la causa dei manifestanti sebbene la ritenga senza speranza. Scrive Houellebecq: «In Francia il numero degli agricoltori si è ridotto enormemente negli ultimi cinquant’anni, ma non si è ancora ridotto abbastanza. Bisognerebbe ancora dividerlo per due o per tre per arrivare agli standard europei, agli standard della Danimarca o dell’Olanda. Insomma, quello che sta accadendo in Francia con l’agricoltura è un enorme piano sociale, il più grande piano sociale in atto al momento, ma è un piano sociale segreto, invisibile, in cui le persone scompaiono individualmente, nel loro angolino, senza mai dare materia per un servizio su Bfm (il canale televisivo all news francese, ndr)». A fare da perno a questo secondo importante filone tematico del romanzo è Aymeric, unico amico di Labrouste, suo ex compagno di studi e rampollo di un’antica e aristocratica famiglia, i d’Harcourt, che ha scelto di dedicarsi all’agricoltura e alla zootecnia ma è sempre più sommerso dai debiti. Aymeric si unisce alla protesta divenendone drammaticamente protagonista con un gesto estremo, che ne fa anche una sorta di eroe e protettore dei contadini francesi. D’altra parte, come l’autore fa dire a Labrouste, questa «era stata da sempre la missione della nobiltà».

Spesso nei romanzi di Houellebecq è difficile comprendere se il punto di vista enunciato dal protagonista (o comunque da un personaggio) sia anche il punto di vista dell’autore stesso. Certo, quando determinati concetti travalicano i confini di un singolo romanzo e si ritrovano anche in altri testi dello stesso autore è facile credere che quelle siano le idee professate dallo scrittore. Ma non bisogna dimenticare che Houellebecq è uomo estremamente intelligente e che una delle più geniali astuzie di uno scrittore è quella di ingannare il lettore facendogli credere che la visione della voce narrante coincida con la propria. D’altronde Houellebecq ha capito già da tempo che infarcire un testo di sesso (preferibilmente estremo e trasgressivo) e di provocazioni, di affermazioni caustiche e prese di posizione politicamente scorrette (che non risparmiano nessuna categoria sociale) è un modo per far parlare di sé: un escamotage per ottenere recensioni e per suscitare curiosità attorno ai propri libri. Curiosità che inevitabilmente si traduce in incremento delle vendite con conseguente incremento e delle proprie quotazioni in ambito editoriale e del proprio conto in banca. Né questa vuole essere una critica, quanto invece l’ennesima attestazione di merito nei confronti dello scrittore francese dal momento che Houellebecq sa unire ad una pur legittima strategia di mercato anche lo scandaglio di tematiche che riguardano l’universalità del genere umano: nella fattispecie, in Serotonina, l’amore, le relazioni interpersonali, la solitudine, l’incomunicabilità, la critica alla società odierna che rende inautentici o impossibili i rapporti tra le persone. Se poi tutto questo viene analizzato attraverso stili e forme narrative niente affatto melense e per nulla buoniste, tanto di guadagnato perché, come raccomandava Giorgio Manganelli, la letteratura deve essere disturbante.

Il tono cinico e spregiudicato di Houellebecq serve anche a farci riflettere sul fatto che forse l’abuso imperante del politically correct – la vera e propria overdose che se ne è fatta in tempi recenti – può avere come effetto collaterale quello di intorpidire le coscienze e di imbrigliare la libertà artistica. Tanto meglio allora un autore che dica pane al pane e vino al vino, senza tanti peli sulla lingua. Inoltre, è inutile negarlo, la perentorietà di talune affermazioni, l’ostentato convincimento, l’irritante sicumera dei giudizi con cui pretendono di sentenziare su molteplici aspetti della vita e della società, sono, per quanto urticanti, uno degli aspetti di maggiore fascino dei personaggi houellebecquiani. Di fronte a lettori spesso disorientati, che non hanno o faticano a farsi un’opinione coerente e univoca sulla realtà che li circonda, i personaggi di Houellebecq – cinici, sconfitti, rinunciatari o addirittura inetti a vivere, sempre e comunque nichilisti – appaiono come inquietanti, esiziali, e pur tuttavia unici depositari di verità.


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