Ricconi, gente comune, emigranti. Prima, seconda, terza classe. Ma tutti sulla stesso piroscafo: il Virginian. Tutti pronti al sogno. Pronti per l’America. E chissà quante americhe aveva visto Danny Boodman T.D. Lemon Novecento, lo straordinario protagonista dell’omonimo monologo di Alessandro Baricco (esordio felice nel lontano ‘94 al Festival di Asti) che il Centro Teatro Studi di Ragusa, con la regia di Franco Giorgi, ha meritatamente riproposto all’interno della rassegna “Underground Rivers” di Teatro Argentum Potabile sui legni del Roots di Catania.
Al centro dello spazio la voce narrante, quella di Tim Tooney trombettista sul Virginian, destinato a diventare amico fraterno proprio del protagonista Novecentoinsieme alle piacevoli ombre sonore ora del ragtime – “la musica che Dio balla quando nessuno lo vede” – ora del jazz; note su note che l’Atlantic Jazz Band sparpaglia durante le lunghe traversate. Prima che a salire in cattedra sia appunto Novecento, il pianista che vive da sempre sulla nave, raccolto neonato e subito adottatodall’equipaggio – dopo essere stato abbandonato in prima classe dentro una cassa di limoni – e battezzato sinteticamente “Novecento” in omaggio al primo anno del nuovo “fottutissimo secolo”. Lui è un bambino prodigio: a otto anni (anche se ufficialmente non era mai nato) seduto sul seggiolino del pianoforte, “con le gambe che penzolavano giù e non toccavano nemmeno per terra”, incanta tutti con una musica che “non c’era da nessuna parte”. Almeno prima che la suonasse lui. Un essere quasi mitologico, che un’aura di simpatica e disincantata umanità accompagna in ogni suo gesto, in ogni sua conversazione. Perchè Novecento non suona semplicemente note con i suoi inseparabili ottantotto tasti: suona attimi, luoghi, immagini, persone e paesaggi, capace di leggere com’è, le storie che ognuno di quei viaggiatori si porta dentro. Novecento è insomma la mappa del mondo e delle sue contraddizioni. L’icona di tutte le nostalgie e di tutti gli amori, di tutti i desideri e di tutti i sogni, un discreto e affascinante supereroe che coniuga le battute più salaci, la saggezza più sublime agli atteggiamenti più sorprendenti. Imprendibile. Perennemente trasversale.
Sorta di improbabile biopic teatrale per voce sola, “Novecento” si incentra nella voce e nel corpo di un interprete davvero eccezionale. E’ infatti il giovane Giuseppe Ferlito, nel corso di una vertiginosa performance, ad immedesimarsi in tutti personaggi della storia, a scendere nella loro vita, ad indossare i loro panni, a declinarne voce e accenti, a variare il ritmo del corpo e dei pensieri. Un’ora e mezza di spettacolo che scivola su una platea ammaliata, come il Virginian sull’Oceano. Uno spettacolo sostenuto anche da piccole incantevoli magie registiche: il volteggio di un minuscolo pianoforte su un’aria di valzer, per esempio e da una felice e accattivante scelta delle musiche: da Yann Tiersen a Scott Joplin fino a Randy Newman. La nave diventa insommaNovecento e Novecento è la nave, forse l’universo stesso che è celato in ogni essere, e le sue radici non sono estirpabili: per questo non scenderà mai dal Virginian, nemmeno quando, dopo la guerra, il piroscafo sarà destinato ad una ingloriosa distruzione. Eppure Novecento sceglierà di rimanervi, capitano di sè stesso per l’eternità. Sarà solo una voce che si spegne, per appagare la ricerca di una personale finitezza. Al massimo, potrà scendere dalla sua vita: “In fin dei conti – confessa – io non esisto nemmeno.” Ovazione meritatissima.