L’ultra petitum della sentenza Bossetti: la Cassazione e il “contenitore mediatico”

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Con la sentenza n. 52872 del 23 novembre 2018 (udienza 12 ottobre 2018), la prima sezione penale della Corte di Cassazione ha definitivamente stabilito la verità (giudiziaria) sul brutale omicidio della tredicenne Yara Gambirasio, avvenuto a Chignolo d’Isola, in provincia di Bergamo, il 26 novembre del 2010. Massimo Giuseppe Bossetti, muratore di Mapello, è stato riconosciuto come il responsabile dell’atroce delitto, commesso con efferate sevizie e crudeltà, e per questo destinato all’ergastolo.

Le argomentazioni con cui la Suprema Corte ha confutato, uno ad uno, i rilievi difensivi, volti ad insinuare un “ragionevole dubbio” circa la colpevolezza dell’imputato, appaiono insuperabili, sia sotto il profilo logico che squisitamente giuridico. Colpisce, però, nel tessuto motivazionale della decisione, l’approccio a dir poco inusuale con cui il giudice di legittimità si è soffermato, a tratti in maniera sferzante, nel vagliare le deduzioni del ricorrente. Il sommo Collegio lascia trasparire la volontà di respingere non solo le «pseudo-valutazioni tecniche che sono estranee alle argomentazioni sviluppate dagli esperti (anche della difesa)», in quanto «frutto» – secondo il lapidario giudizio della Corte – «della scienza privata del difensore» (punto 13.1), ma anche ed a tratti – viene da dire – soprattutto, quelle congetture che negli anni si sono rincorse nei salotti televisivi ove si è celebrato, contestualmente, il “processo mediatico”.

A fronte della preliminare declaratoria di inammissibilità del ricorso, la meticolosa ponderazione con cui la Corte ha demolito l’intero costrutto difensivo viene fatta discendere, per espressa ammissione degli stessi giudici, dall’esigenza non secondaria di replicare alle semplificazioni diffuse dai talk show serali. Vi sono alcuni passaggi della pronuncia in esame in cui viene ad infrangersi apertamente, per la prima volta, la regola aurea della giurisdizione penale che vuole che lo ius dicere appaia, almeno nella forma, impermeabile rispetto a quel che viene detto al di là ed al di fuori delle aule di giustizia (quod non est in actis non est in mundo). Nel contestare le asserzioni con cui la difesa, con «sorda ostinazione» (punto 2 della sentenza), ha tentato di ribaltare la duplice e conforme condanna di merito, con particolare riguardo al nodo centrale della validità scientifica e processuale della prova del DNA, la Corte di Cassazione, da un lato, ribadisce l’irricevibilità di simili eccezioni nel giudizio di legittimità ma, dall’altro, si dichiara ben «consapevole delle reiterate mistificazioni di cui è stato alimentato il dibattito tecnico e pubblico sulla vicenda» (punto 7) per cui ritiene di dover comunque valicare i limiti del sindacato giurisdizionale, strettamente imposti dal devoluto. Attraverso il consapevole ricorso all’ultra petitum, il giudice di nomofilachia vuol tacitare così, insieme alla perorazione difensiva «spesso caotica e sempre ripetitiva e priva di una effettiva autocritica» (punto 1.1), ogni ulteriore illazione ripresa dai social, dai giornali, dalle tv. La Cassazione procede con intransigente severità critica, «tenuto conto dei reiterati tentativi di mistificazione degli elementi di fatto che caratterizzano numerose censure contenute nel ricorso, amplificate – ed è questa la sottolineatura più emblematica – da improprie pubbliche sintetizzazioni» (punto 12). Eloquente è ad esempio l’inciso con cui la Corte rileva, «visto che la difesa ha utilizzato l’argomento anche in sede extraprocessuale», che «la genericissima ipotesi della creazione in laboratorio del DNA dell’imputato, oltre ad appartenere alla schiera delle idee fantasiose prive di qualsiasi supporto scientifico e aggancio con la realtà, è manifestamente illogica» (punto 16.5.4 della sentenza).

L’intento esplicito del Collegio è quello di mostrare la «strumentalità» delle tesi difensive, «non infrequentemente esposte anche al di fuori del contenitore processuale» (punto 16.5); vale a dire in quel tanto vituperato “contenitore mediatico” a cui i giudici di Cassazione lasciano clamorosamente intendere di aver guardato, per l’intero corso del dibattimento, con estrema attenzione e con cui, al termine della vicenda giudiziaria, si confrontano apertamente per esplicare le ragioni (indubbiamente persuasive) che impongono la condanna del reo. Dal punto di vista comunicativo, la sentenza Bossetti costituisce un unicum giurisprudenziale e non tarderà a richiamare l’attenzione, oltre che dei giuristi, di quanti studiano l’impatto dei media nel processo penale e, più in generale, nella società del nostro tempo.


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