Ricordo ogni istante della sera di sabato 14 febbraio 2004, quando poco prima delle undici giunse la notizia del ritrovamento di Marco Pantani in una camera del residence “Le rose” di Rimini.
Ricordo la storia di Pantani non solo per la sua drammaticità ma perché si intreccia in più punti con la mia: di bambino prima e di adolescente poi. Ricordo, ad esempio, che piaceva a mio nonno, il quale lo seguiva nella sua ultima estate, quella vittoriosa del Tour de France dopo essersi imposto al Giro d’Italia, alla maniera dei campioni antichi che tanto lo enfusiasmavano da ragazzo. E ricordo che quando morì, quindici anni fa, scrissi una poesia e la inviai a un quotidiano locale, segnando una tappa importante nel mio percorso verso il giornalismo. Infine, la professoressa di italiano, andavo ancora in terza media, ci diede un tema sulla sua scomparsa e la mia tesi, purtroppo rivelatasi poi esatta, era che la morte del “pirata”, come era soprannominato, corrispondesse alla morte dello sport italiano e, in particolare, di una disciplina romantica ed errabonda come il ciclismo.
Mentre scrivevo quelle riflessioni, mi tornavano in mente i racconti di mio nonno relativi alle imprese di Binda e Guerra ma, soprattutto, di Coppi e Bartali, di Magni, di Gaul, di Anquetil, di Gimondi e di Moser, del cannibale Merckx e dei tanti altri campioni che avevano attraversato il romanzo popolare di un secolo colmo di tragedie ma, al tempo stesso, capace di regalarci attimi di meraviglia.
Ripensai a quel sabato a Madonna di Campiglio, era il 5 giugno del ’99, in cui la corsa del fuoriclasse di Cesenatico venne fermata da una squalifica per doping rivelatasi, fin da subito, molto controversa. E ripensai al dramma dell’uomo, prima ancora che del campione, che per anni ha gridato la propria innocenza senza essere ascoltato quasi da nessuno, salvo poi diventare un mito, come spesso accade, nel momento in cui ci siamo accorti di non aver mosso un dito per salvare un ragazzo di trentaquattro anni, devastato da sospetti e prgiudizi, la cui unica colpa era stata quella di non riuscire a gestire al meglio il proprio smisurato talento.
L’intreccio delle nostre vite, del tutto casuale ma comunque bellissimo, ha fatto sì che la sede scelta da Letta per la Summer School della Scuola di Politiche sia proprio Cesenatico, e così ogni anno, a settembre, passo davanti a un negozio di biciclette che espone in vetrina la sua bici, i suoi cimeli e i suoi tanti, dolorosissimi trofei. E quel ragazzo pelato e simpatico, benché velato, anche nei giorni del trionfo, da un filo di malinconia dovuto, probabilmente, al suo carattere introverso e alla sua paura di esporsi mediaticamente, quel ragazzo che ha scandito tappe importanti della mia esistenza continua a vivermi dentro, inducendomi a riflettere su quanto possa essere effimera la gloria in questa triste stagione in cui anche l’uomo è diventato un oggetto.
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