Domenica scorsa, è iniziato il conto alla rovescia per il Centenario dalla nascita di Federico Fellini venuto al mondo il 20 gennaio 1920, e su Articolo 21 abbiamo dato il dovuto risalto alla ricorrenza. Mentre dovunque in Italia e nel mondo si preparano le celebrazioni, ho proposto al direttore Stefano Corradino di essere noi a inaugurare la festa in questo spazio libero – e dov’altro? – con un progetto originale ed eterodosso intitolato GLOSSARIO FELLINIANO.
Per dodici mesi, il venerdì di ogni settimana, pubblicheremo una voce del glossario in ordine sparso e non alfabetico, cercando di restituire al lettore la figura affascinante e complessa del più grande artista italiano del Novecento, celebre e amato in tutto il mondo.
Gli argomenti saranno i più disparati, e riguarderanno sia l’arte che la figura di Fellini restituiti in uno sguardo molto ravvicinato, quasi privato e spesso inedito, per una migliore comprensione della sua opera. L’approfondimento del tema sarà affidato all’immediatezza dei racconti, con il consueto linguaggio lontano dai saggi critici o accademici, al contrario, molto vicino alla vita di ogni giorno, seguendo l’insegnamento di Fellini stesso.
Inizieremo questa settimana con l’ INTRODUZIONE E PRIMA VOCE DEL GLOSSARIO
FEDERICO
Federico Fellini l’artista più originale del Novecento, il più grande che abbia avuto l’Italia, il 20 gennaio scorso avrebbe compiuto novantanove anni. Nel suo 73° compleanno, l’ultimo della sua vita, sollecitato dal cronista di turno a rilasciare un commento, aveva risposto con un tipico spiazzamento dei suoi:
«Che posso dire, è la prima volta che compio settantatre anni; non so ancora come ci si sente».
I suoi scarti, le sue finte.
Era il regista più ammirato, più celebre, più fortunato, il più carico di gloria e riconoscimenti. L’artefice del cinema moderno e post moderno, il campione dell’individualismo sfrenato, dell’assoluta libertà del creatore, il demiurgo che con la sua intransigenza aveva riscattato l’intera categoria alla dignità dell’arte, alimentando quasi suo malgrado innumerevoli vocazioni e una sterminata schiera di proseliti. Il mago, lo sciamano, il guru.
All’ultimo Festival di Venezia David Cronenberg ha dichiarato: “Quando vedevo un film di Fellini, uscendo dalla proiezione avevo la convinzione di poter parlare italiano”.
Un interessante fenomeno di eulalìa, già in odore di miracolo.
Lo sguardo di Federico era un prisma di limpidissimo cristallo le cui facce, ruotando, dardeggiavano bagliori iridescenti e donavano una luce insospettabile a ogni aspetto dell’esistenza. Stando al suo fianco si veniva calamitati nel magma incandescente che, prendendo forma, sarebbe andato a impressionare la pellicola.
A ogni nuovo film tutta Roma partecipava con eccitazione al rito creativo del gran sacerdote. Sul set arrivavano in visita politici, alti funzionari televisivi, potenti industriali, divi americani, teste coronate, donne da sogno, porporati, direttori di giornali; e oltre le transenne si affollava immancabile la ressa di curiosi, di turisti, di ‘generici’ in cerca di un ingaggio per le scene di massa. Da tutti, indifferentemente, veniva chiamato “Federico”.
“Se mi chiamano Fellini mi viene spontaneo guardarmi dietro le spalle, come se ci fosse mio padre da qualche parte e si rivolgessero a lui”.
Il cognome rappresentava il mondo degli adulti, al quale Federico si sforzava in tutti i modi di non appartenere.
Si sottrasse persino alla laurea ad honorem conferita dall’Università di Bologna, perché – spiegò nella sua rinuncia – “Mi sentirei come Pinocchio decorato dal Preside e dai Carabinieri per essersi divertito nel paese dei Balocchi”. Voleva restare libero come quando, adolescente, sedeva nei banchi del liceo e disegnava la caricatura dei professori pretendendo oltretutto di essere premiato per la sua impudenza.
Il regista, al pari dell’uomo, era l’incarnazione dell’artista clown, il funambolo da circo di cui si ammirano i virtuosismi, l’elasticità, l’assoluta indipendenza dalla forza di gravità, senza mai avvertirne, neppure per un istante, lo sforzo muscolare. Dal suo cinema emana soltanto la grazia che lo pervade, il medesimo incantamento che Federico esercitava nella vita quotidiana su chiunque incontrasse.
“Egli danza…” affermava Orson Welles nel film La ricotta di Pier Paolo Pasolini.
Il suo atletismo cerebrale era ciò che lo rendeva così diverso da tutti gli altri, così unico. Era lui la ‘festa mobile’.
Con la sua uscita di scena si è creato quel vuoto di senso che il nostro cinema claudicante non riesce a colmare. E’ venuta a mancare la consuetudine con il racconto di un genio che inquadrava la realtà dentro un’ottica solo a lui conosciuta, attirandoci in un altrove fantastico e familiare in cui potevamo sconfinare a piacimento, non cessando mai di credere al miracolo della vita e al nostro imperscrutabile destino di semidei.
E se nel suo ultimo film il satellite della Terra, la Luna, viene espiantata dal cielo nell’indifferenza di un’umanità prona agli idoli di un’insolente tecnolatria, in compenso il suonatore di oboe si domanda dove vanno la note quando si smette di suonare, e Ivo Salvini disteso di pancia sotto il lettone della nonna, contempla il fuoco nel camino interrogandosi su dove si avviano le ‘monachine’ che salgono lungo la cappa. Fenomeni inspiegabili, ermetici al pari della “voce dei pozzi” che l’autore ci invita, ci esorta, ad ascoltare in quel suo ultimo film testamento:
“Eppure io credo che se ci fosse un po’ più di silenzio, se tutti facessimo un po’ di silenzio, forse qualcosa potremmo capire…”
Fellini era principalmente un anarchico che amava l’ordine. Il suo cinema è sempre rimasto fedele a quel medesimo spirito, e non si piegava a compromessi. Avverso alla stampella delle ideologie, estraneo allo strepito dei comizi, all’inautenticità delle tendenze, alle parole d’ordine, ai falsi profeti, al pensiero unico di massa, il più individualista e apolitico dei registi, armato soltanto di poesia, era anche il più impegnato nella difesa della creatura umana da ogni soggezione e tirannia. Scanzonato e imprevedibile, si esprimeva dischiudendo la porta al mistero e affidandosi alla voce dell’arte, l’unica che non poteva e non potrà essere manipolata, immutabile nel tempo.