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Reddito di cittadinanza e quota cento. È il tempo dei decreti

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Il governo dimentica i miliardi per pagare il Tfr. La recessione c’è e si vede. Tria non se ne accorge

Di Alessandro Cardulli

Giovedì dovrebbe essere il gran giorno per  il decreto che rappresenta l’anima del contratto stipulato fra  M5S e Lega,  leggi Di Maio e Salvini. All’ordine del giorno del Consiglio dei ministri dovrebbe arrivare il testo definitivo del  reddito di cittadinanza e di quota 100. Diciamo dovrebbe perché non è la prima volta che i vicepremier danno questo annuncio, poi non se ne fa niente perché i conti non tornano. Servono ancora “limature”. Tradotto:  non solo non ci sono le coperture, manca proprio la sostanza, la polpa. Un esempio? Per il reddito di cittadinanza era previsto un percorso che poteva durare tre anni. Ora si prevede che se rifiuti la prima offerta di lavoro, resterà l’unica perché uscirai subito dal percorso. Non più tre anni ma solo uno. Per non parlare di quota  cento. Ora si scopre che per i lavoratori del pubblico impiego che stanno per  uscire dal posto di  lavoro, secondo quanto prevede la legge per quanto riguarda il Tfr, la liquidazione, soldi pagati dai lavoratori, si dovrà attendere anche sette anni.

E pensare che il  Di Maio aveva gridato: “Abbiamo eliminato la povertà”. A fronte di una situazione economica del nostro Paese  sempre più traballante aveva il coraggio di  affermare che il futuro prossimo era il boom economico. Salvini,  più  avvertito delle difficoltà economiche, se la prendeva con i migranti. Tutti a casa e risolviamo i nostri problemi. Addirittura il premier Conte contattava il Commissario Ue Avramopoulos per  far presente che “siamo  latori di un cambio di direzione nella politica sui migranti che sta dando i suoi frutti”. Il Commissario ha parlato di “incontro costruttivo. Lavoriamo insieme per gestire meglio la migrazione. La Ue è al fianco dell’Italia nella sfida”.

Incontri separati di Conte e Salvini con il Commissario Ue Avramopoulos

Non poteva mancare l’intervento di Salvini il quale si è fatto ricevere separatamente dal Commissario che ha  fatto buon viso a cattiva sorte. Chissà perché  Avramopoulos ha  dovuto  ricevere separatamente premier e uno dei suoi vice. Fortuna ha voluto  che il Di Maio fosse impegnato in un tour di campagna elettorale insieme al suo amico Di Battista.

Il quadretto del governo non era completo. Ci mancava il ministro Tria al quale viene  affidato il compito di far presente in dichiarazioni alla stampa che va tutto bene, l’economia tira. Ma come, i dati relativi alla crescita nel mese di novembre avrebbero dovuto rappresentare un  segnale di grande allarme. Numerosi economisti hanno parlato di recessione. Ma lui il Tria, cuor di leone, ha detto che non è vero niente. Al più si può parlare di stagnazione ma non di recessione.  Un professore come Tria non può non sapere che la stagnazione è una fase dell’economia caratterizzata da una  crescita minima o nulla del prodotto interno loro (Pil), della domanda e dell’occupazione. La recessione è la fase successiva del ciclo economico caratterizzata da una contrazione del Pil più accentuata. Guarda caso proprio a poche ore di distanza dal trillo di Tria arrivano segnali ben diversi che confermano la difficolta della nostra economia, di una crisi sempre più pesante.

Previsioni ottimistiche del governo sulla situazione economica

S&P, agenzia di rating, affermava che le previsioni del governo italiano sul Pil sono ottimistiche, “per l’Italia vediamo una crescita più lenta nel 2019 al ritmo dello 0.7%. La stima per il 2020 del Pil è di un +0,9%”. Passiamo a Bankitalia che sulla base di una indagine sulle aspettative di crescita e di inflazione rileva “un netto   deterioramento in tutti i settori di attività. Le attese sulla domanda interna sono meno favorevoli”. Per quanto riguarda la produzione industriale nell’Eurozona a novembre vi è stata una brutta caduta dell’1,7% rispetto al mese precedente.

Torniamo ad occuparci del ministro Tria. Così come altri disinvolti giovanotti e giovanotte che si trovano ad occupare posti di rilievo, sottosegretari, viceministri, staff del ministro a fronte dei dati negativi che segnano l’economia del nostro  paese hanno pronta subito la risposta: va male anche la Germania, perde colpi. E con questo i gialloverdi di mettono l’anima in pace. Sciocchezze, analfabetismo politico ed economico. Perché i paesi forti sono in grado di recuperare un punto, mezzo punto di Pil. È il mercato bellezza, ma non viene messa in discussione la solidità di un paese.

Consiglio dei ministri alla prova decreti. I problemi tenuti nascosti

Torniamo così a giovedì quando il consiglio dei ministri ha in calendario l’approvazione del reddito di cittadinanza e di quota cento per le pensioni. Proprio alla vigilia di decisioni così importanti che riguardano centinaia di migliaia di persone, da una parte il posto di lavoro, o meglio la ricerca di un posto di lavoro, i  centri per l’impiego che non ci sono, e dall’altra l’accesso alla pensione anticipata, modificando la legge Fornero, si scopre un problema fino ad oggi tenuto nascosto: come verrà pagata la liquidazione, il Tfr, la liquidazione che compete per un dodicesimo all’anno ai lavoratori del pubblico impiego? Il problema è stato sollevato proprio in questi giorni. Se ne era parlato in interviste a giornali, interventi di dirigenti sindacali. Riguarda centinaia di migliaia di lavoratori pubblici, ma anche i privati non sono tranquilli per la loro liquidazione che è nelle mani delle aziende. Ha affrontato la questione il professor Mario Baldassarri, presidente del Centro “Economia reale”. Ha  scritto una lettera al Corriere della Sera,  ne ha parlato nella  rubrica che tiene su Radio Radicale. Nell’attesa di conoscere nei dettagli il contenuto formale del decreto e sulla base delle indiscrezioni emerse, facciamo quattro conti – scrive il professore – su “pensioni a quota 100” e Tfr, perché sembrerebbe che i conteggi delle liquidazioni siano sfuggiti all’attenzione degli stessi sostenitori del provvedimento. Dice il professor Baldassarri: “ Se i prossimi «quotacentisti» fossero per tre quarti dipendenti privati, significa che l’Inps pagherà loro la pensione dovuta e le aziende dovranno restituire ai loro lavoratori circa 18,5 miliardi di Tfr. D’altro canto, se un quarto fossero dipendenti pubblici, significa che le pubbliche amministrazioni dovranno pagare, oltre alle pensioni, circa 6,2 miliardi di Tfr ai loro dipendenti «quotacentisti»”. Giovedì il “mistero” dovrà venire alla ribalta.

Da jobsnews


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