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Se la fame è “allucinante”. Appunti su “Miseria e Nobiltà” di Scarpetta

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“Nei bassifondi”, “L’albergo dei poveri”, “La musica dei ciechi”, “Il ventre di Napoli”- quindi Gorkij,  J.B. Jelloun, Viviani, Serao. Sono molte le tentazioni di affibbiare a questa rarefatta, lancinante edizione di “Miseria e Nobità” illustri ascendenti che vadano oltre la pirotecnica, empirica arte di Scarpetta – e la collettiva memoria per lo più affezionata a quella perla (artigianale)   di teatro-nel-cinema che è il film di Mattioli (1954), fra i maggiori cult della filmografia di Totò.

Il gioco di rimandi letterari sarebbe una scorciatoia, poiché assegnerebbe allo scabro, colto, acuminato adattamento di Melchionna e Arena sovrastrutture, legami, ascendenze che non appartengono al blasone della cultura, ma  a quello, molto più basico e angosciante della “natura umana” ricondotta alla condizione dei ratti. Non a caso bisognerà attendere l’ultima battuta, in proscenio, di Felice Sciosciammocca (“miseria sì…nobile e umana”) per restituire senso, spessore, ideologia sociale “di liberazione”  alle note registiche, liddove si soffermano in “ombre si dice siano, queste maschere, ombre potenti”- senza che Pirandello abbia nulla da spartirvi.

La “miseria” affiora da una spelonca per nulla colorita o folkloristica, anzi atra, cupa e fuligginosa ove la fame corporale, e di tutto il suo organismo, è appannaggio dei  poveri in canna   e per dinastia:  cartilagini brulicanti colpevoli solo di esservi “finiti”,  in quella poco platonica e umida spelonca, non napoletana ma universale, in cui i crampi del digiuno secolare non hanno più alcun flatus per  rumoreggiare o protestare.

E nemmeno pietire. Mentre la “fame” assurge  ad entità siderale, preistorica, irreversibile, cui sarebbe quasi frivolo  apporre ‘interpretazioni’ di ordine storico o  socio-antropologico, mentre l’unica scodella di pasta non condita  (in una delle più crudeli sequenze di teatro mai viste) pioverà dall’alto, da uno squarcio del tendone scenografico,  su iniziativa di un damerino da fumetto, come sottili fili di spago in pasto ai maiali. Con tocchi e ritocchi da ilarotragedia moderatamente grottesca,  volutamente priva del sorriso subliminale (lo sghembo ghigno di De Curtis) che tutto decongestionava e riconduceva a (nobile) farsa.

Il canovaccio di Scarpetta prevede, come sappiamo, che la combriccola dei miserabili vada a contatto, nel secondo tempo, con una piccola comunità di scimuniti e parvenus  sottoposti  a regime di “nobiltà”- o per lo meno ad essa protesi, se si vuole che uno degli intrecci amorosi (tra il pargolo fancazzista e la denutrita figliola di Pasquale, ex attore in disgrazia) abbia da compiersi e al resto si vedrà…  Bene. E’ nel secondo tempo che l’inusitata, a tratti geniale regia di Melchionna, raddoppia la sua dose di “irreale” e si abbandona al suo  sogno di una notte di mezza sbornia. Nel senso letterale ed onirico della frase. Si ristoreranno veramente e pienamente i miserabili del primo tempo giunti a casa dell’arricchito cuoco Gaetano (travestiti e da sedicenti aristocratici, vistosamente come se si trattasse di un burlesque)? O si tratta invece di una sosta sulla ‘via lattea’, di ‘una macchina celibe’  (non v’è ombra, in quella strana magione, nemmeno d’una pagnotta)  collaterale effetto di allucinazione dell’inedia al suo ultimo  stadio? Non lo sapremo mai.

Vedremo solo che, nel passaggio dalla caverna iniziale, delimitata da lignei passeggiamenti rasoterra (che costringono gli attori a simulare l’ingresso e l’uscita delle bestie da circo) allo sterile, geometrico biancore dell’alta dimora “vitto e alloggio ad libitum” (quel bianco terso che, se ben ricordo, è allegoria di lutto in certe filosofie orientali), lo spettacolo avrà accelerazioni da vaudeville burlesco,  parodistico, pullulante marionette meccaniche e ‘cuoricini’ che si baciano prolungatamente, a labbra incollate, per suggere ‘linfa’ (predatoria) l’uno dall’altra.  Se non si tratta di incubo bensì di ‘operina rock’ suppletiva – eccentricità di stile o avvistamento che ‘nulla è cambiato’ – è facoltà di chi assiste porsi l’interrogativo o cullarsi del lieto fine.

Ps Protagonisti suppletivi dello spettacolo sono i fantasiosi, sgargianti, stravaganti costumi di Milli e le   spiazzanti, fragorose musiche di Stag. Quanto agli interpreti, Lello Arena emerge in parsimonia di tonalità e di gesti  nel  suo tetro, ingombrante spaesamento d’uno Sciosciammocca con immensa barba profetica e lisa palandrana. Trasformatasi, nel secondo atto, in vistoso abbigliamento (postura, parodia) dell’Enrico VIII, un tempo scapestrato e sciupafemmine. Coralità di plauso per il resto della compagnia, ed una nota di merito per il volteggiante Peppeniello, un po’ scugnizzo, un po’ acrobatico messaggero in fuga dalla pancia vuota, interpretato da Veronica D’Elia.

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“Miseria  e Nobiltà”
di Eduardo Scarpetta  adattamento a cura di Lello Arena e Luciano Melchionna
Con Lello Arena, Maria Bolignano, Tonino Taiuti, Giorgia Trasselli e con  Raffaele Ausiello, Veronica D’Elia, Marika De Chiara, Andrea de Goyzueta,  Alfonso Dolgetta, Sara Esposito, Carla Ferraro, Serena Pisa, Fabio Rossi, Fabrizio Vona

Ideazione scenica Luciano Melchionna  Scene Roberto Crea  Costumi Milla  Musiche Stag  Assistente alla regia Ciro Pauciullo  Regia Luciano Melchionna

Coproduzione Teatro Eliseo, Ente Teatro Cronaca Vesuvioteatro- con Tunnel Produzioni

Teatro Eliseo di Roma sino al 20 gennaio 2019. Da febbraio in tournée nazionale


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