Era un medico giovanissimo quando, circa 45 anni fa, si avvicinò alla Palestina, fisicamente oltre che politicamente. A dire il vero aveva una certa allergia a definire il suo lavoro politico anche se era frutto di una scelta indiscutibilmente politica, la scelta per le vittime dell’ingiustizia che lui cercava di “risarcire” in qualche modo col suo lavoro.
Non amava le luci della ribalta e non gradiva essere considerato un attivista. Era un chirurgo e come chirurgo operava ove lo portava il suo senso della giustizia e la sua umana empatia per chi era in stato di bisogno. Era nato nel 1946 ed aveva conosciuto la Palestina della “grande resistenza” dopo il 1967, quando aveva poco più di 20 anni ed era ancora all’Università. A 26 andò in Palestina per la prima volta come neo laureato deciso a conoscere ed eventualmente a dare il suo aiuto.
Nelle poche parole su di sé, strappategli con la tenaglia, non c’è mai più dell’essenziale. E nell’essenziale viene fuori che aveva conosciuto (leggi collaborato con) il dr. Fathi Arafat, fratello del presidente Yasser Arafat e fondatore della Mezzaluna Rossa Palestinese. Viene fuori che aveva conosciuto quasi tutti i grandi resistenti che Israele non aveva ancora ucciso ma che, l’uno dopo l’altro, sarebbero stati vittime della pena di morte senza processo. Quella che Israele somministra ai palestinesi con buona pace delle Istituzioni internazionali e sovranazionali grazie alla fantastica espressione mediatica di “esecuzione mirata” che dietro quel “mirata” riesce a nascondere l’essenza dell’assassinio.
Ma lui era un chirurgo e di quelle cose parlava solo in camera caritatis, generalmente a quattr’occhi e lasciando intravedere, suo malgrado, una certa commozione. Era difficile strappargli un’intervista che non riguardasse esclusivamente la sua professione e, anche rispetto alla sua professione, soleva dire “se quel che faccio è importante lo stabilisce chi ne beneficia, non c’è bisogno che io stia a raccontarlo”. E quel che faceva era molto importante. Lo sanno a Gerico, a Ramallah, a Hebron, a Beit Jala, a Gaza…. Lo sanno in tutti gli ospedali dove ha operato portando avanti con successo diversi progetti di formazione per chirurghi palestinesi, lo sanno i palestinesi e le palestinesi che hanno potuto beneficiare del suo programma di endoscopia e dell’applicazione innovativa delle tecniche di laparoscopia utilizzate per la cura della sterilità.
In un paese che per cultura e per profonda resiliente convinzione ripone nei figli l’importanza della vita, riuscire a curare la sterilità con interventi mini-invasivi e gratuiti nonostante la carenza di risorse sanitarie, ha dello straordinario. Ancor più straordinario e assolutamente originale l’incontro che il professor Meinero è riuscito a combinare tra la sua attività professionale e l’arte, lui che – pochi lo sanno – era anche un violinista.
Il chirurgo, volontario di decine di missioni in tutta la Palestina, violinista e padre di un’artista di teatro violista a sua volta, amico della direttrice del teatro Al Harar di Beit Jala, cittadina nel cui ospedale governativo ha operato a lungo, ha fornito le sue competenze per uno spettacolo teatrale che le due donne hanno realizzato insieme e che affronta il problema della maternità in modo profondo ed originale rappresentando un raro esempio di combinazione di arte, messaggio sociale e scienza. Citarlo fa capire l’immensità della figura di un uomo capace di irradiare energie positive a tutto campo.
Mario Meinero, un “orso cuneese” che attribuiva alle amate montagne, di cui era originario, il suo “brutto” carattere, quel suo modo di spegnere ogni frase di troppo con due parole, a volte addirittura con una: “ottimo”, per esempio, poteva essere la sua approvazione super-sintetica a un discorso di venti minuti.
Nelle parole cavategli con le pinze per un’intervista mai realmente conclusa, c’era il ricordo al tempo stesso infastidito e divertito di quando la cosiddetta security israeliana all’aeroporto di Tel Aviv gli aveva creato seri problemi per una targa di ringraziamento offertagli dal Ministero della Sanità Palestinese e aveva rischiato il divieto di accesso proprio lui, così schivo e volutamente in ombra, per aver portato una tecnica chirurgica di natura assolutamente pacifica in Palestina. Dopo quell’episodio aveva sempre il timore che non gli lasciassero passare le strumentazioni tecniche che portava dall’Italia, ma la sua razionalità di “montanaro calcolatore” lo portava a dire che se gli bloccavano il materiale perdeva tremila euro, ma se il materiale passava aiutava tremila persone e quindi il rischio andava corso.
Una parte di quel materiale ora è lì, un po’ nella sua stanza a Betlemme e un po’ nell’ospedale di Gaza da cui è tornato solo pochi giorni fa.
Il professor Meinero, o meglio il dr. Mario come tutti lo chiamavano in Palestina, aveva la capacità di creare reti e di essere nodo di reti create dai suoi amici e in questi nodi, che lo vedevano amico tanto di suor Nabila, la direttrice delle Rosary Sisters di Gaza, la suora cattolica che oggi sta pregando per lui, quanto del dr. Raed Sabbah, medico ateo e comunista che pianterà un albero alla sua memoria, in questi nodi c’è il messaggio vivente di chi realmente praticava con rispetto e amore quell’aiutiamoli a casa loro di cui si riempie la bocca chi in realtà è “malato” di razzismo. Mario era l’esempio vivente della possibilità di essere controcorrente in quest’Italia che va imbarbarendosi e che definisce sprezzantemente buonismo tutto ciò che è solidarietà consapevole.
Ancora due parole di un’intervista incompiuta per concludere la memoria di quest’uomo che da giovanissimo era stato vicino ai palestinesi nella battaglia di Al Karameh e che non li aveva più lasciati pur ripetendo sempre che lui era “solo un medico”. Proprio in quanto “solo medico” aveva perfino portato a Gaza due specialisti che professionalmente considerava eccellenti i quali gli avevano detto di essere sostenitori di Israele. Mario raccontava di aver detto loro “io vi sto chiedendo di venire come medici, dieci giorni per fare il vostro lavoro, venite, operate e con l’occasione vedrete. Poi forse seguiterete a sostenere Israele ma forse no, io vi sto ‘utilizzando’ per le vostre capacità professionali, se accettate, il volo è pronto”. I due accettarono e Mario ridendo disse “intanto hanno fatto quello che Israele non avrebbe certo voluto e l’hanno fatto con la massima professionalità, per il resto, dopo aver visto cosa fa Israele, faranno i conti con la loro coscienza, io ho finito”.
A Gerico, città delle palme, dove ha fondato il “Centro di formazione endoscopica”, il professor Meinero, mostrando ancora una volta la sua bella poliedricità, un giorno decise di acquistare per sua figlia una palma da datteri medjoul, i migliori datteri della valle del Giordano, quelli che Israele spaccia per suoi. Ma acquistare una palma poteva significare espiantarla e portarla nel proprio giardino, questo probabilmente per chiunque altro ma non per Mario Meinero. Lui l’acquistò e dopo averne pagato il prezzo al contadino palestinese che l’aveva coltivata, stabilì che gli avrebbe pagato quanto necessario per curarla e raccoglierne i frutti che poi sarebbe andato a prendere. Chiunque abbia frequentato il dr. Mario nella stagione giusta ha potuto assaggiare i favolosi medjoul freschi, palestinesi di Gerico, allevati, cresciuti ed amati a casa loro.
Questo era il dr. Mario, solo uno spicchio di mondo lo sapeva, e quello spicchio lo piangerà a lungo, ma come a volte succede, il suo messaggio fatto di azione vera potrebbe espandersi proprio ora che una morte precoce lo ha ingiustamente e improvvisamente rapito proprio nel giorno di Natale. In questo mondo dove tutto è spettacolo l’esempio del dr. Mario mostra che è possibile fare grandi cose, farle in silenzio, seguitando a sorridere con leggerezza gentile e andare rigorosamente controcorrente.