I curdi stanno combattendo ancora contro Isis a Deir-Ez-Zor – ultima sacca di resistenza jihadista – quando Trump annuncia via Twitter il ritiro delle truppe americane dalla Siria. Un ritiro deciso insieme all’alleato turco – nonostante la contrarietà del Pentagono – dopo il bilaterale a margine del G20 di Buenos Aires. Erdogan ha avvisato Trump di essere pronto a bloccare l’espansione dei curdi nella regione siriana al confine con la Turchia, proprio dove opera anche anche il contingente americano. E così, con la decisione di ritirare i 2mila militari schierati a Nord-Est entro trenta giorni, i curdi verranno di nuovo lasciati soli, dopo essere stati i primi a resistere, a combattere e a vincere contro lo Stato Islamico. Su 40mila combattenti delle forze YPG/YPJ, 10mila hanno perso la vita. E nell’ultimo viaggio in Siria con Ivan Grozny Compasso, a luglio, abbiamo potuto vedere come, nelle zone liberate da Isis, i cimiteri siano diventati tragicamente città: distese di milioni di tombe diventate luoghi in cui incontrarsi e ricordare i propri martiri.
Nei giorni scorsi Erdogan ha dichiarato che, dopo Afrin, “l’operazione in Rojava potrebbe espandersi oltre l’Eufrate in qualsiasi momento e che l’esercito ha completato i preparativi per spingersi a Est del fiume”. Ricordiamo tutti, tragicamente, i 55 giorni di bombardamenti su Afrin contro civili inermi di 9 mesi fa. il timore è che possa ripetersi la stessa tragedia umanitaria. Chiaramente le prime città che potrebbero essere colpite sono quelle lungo il confine con la Turchia: Kobane, Manbij, Tel Abyad, Amude, Qamishlo, Derik, un’area abitata da circa tre milioni di persone.
“Se gli Usa si ritirano dopo le minacce della Turchia – ha detto ieri da Bruxelles il Congresso Nazionale del Kurdistan (KNK) – abbandoneranno anche le comunità che viviono in quell’area, condannandole a un massacro su larghissima scala”.
Ieri il KNK ha lanciato un appello urgente, rivolgendosi in primis alle istituzioni: chiede alla coalizione anti-Isis di non lasciare il Nord-Est della Siria e di non abbandonare il Rojava; al Consiglio della Nazioni Unite di dichiarare urgentemente una no-fly zone sull’area; agli Usa di ripensare al ritiro; agli Stati Europei di non rimanere silenti di fronte a quello che si annuncia come un potenziale massacro; alla Russia di non rimanere spettatrice. Si rivolge poi alla società civile, alle associazioni di diritti umani agli attivisti e ai movimenti di pace, chiede “far sentire la voce di milioni di curdi, arabi, siriani, assiri, armeni, yazidi, cristiani oggi minacciati dallo Stato turco”; chiede di “offrire solidarietà ai popoli del Nord-Est della Siria, diffondendo la loro preghiera per un mondo di pace”. Noi, come Articolo21, abbiamo dato voce ai curdi e alle minoranze dell’area sin dal primo momento, con reportage, appelli, sit-in davanti alle ambasciate. Oggi, più di sempre, è necessario farlo.