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Femminicidio a Catania. Stermina la famiglia ma sui giornali diventa un “ragazzo d’oro”

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Ha preso la calibro 22 che deteneva regolarmente e ha ammazzato prima la moglie, Cinzia Palumbo di 34 anni, poi ha ucciso i due figli di 4 e 6 anni, e infine si è suicidato. È successo ieri verso le 11,30 a Paternò, in provincia di Catania, dove Gianfranco Fallica, un consulente finanziario di 35 anni, ha sterminato la famiglia nella casa dove abitavano. A dare l’allarme è stato il padre della donna che si era preoccupato per la figlia e che, avendo un paio di chiavi dell’appartamento, è entrato trovando i corpi della donna e dei bambini senza vita nel letto, mentre quello dell’assassino era a terra con accanto l’arma.

Un femminicidio su cui incombe l’ombra del possesso controllante dell’uomo e che è stato invece liquidato dai giornali come un “raptus di gelosia”, come nella maggior parte della narrazione di tutti gli altri 107 femminicidi dall’inizio dell’anno, che solo La Sicilia fa risalire al fatto che “negli ultimi tempi tra Gianfranco e la moglie Cinzia ci sarebbe stato qualche screzio a causa della gelosia di lui”. Pochi cenni in frasi messe lì di sfuggita da cui traspare però un retroscena, trascurato da tutti i giornalisti che si sono messi a scrivere su questa strage, che riguarda una dinamica di controllo da parte dell’uomo nei confronti della moglie, che nulla ha a che vedere con la gelosia, e che potrebbe rivelare a un occhio allenato una dinamica di violenza domestica.

Quello che colpisce in tutti gli articoli scritti sul caso di Paternò è che per prima cosa nessun giornalista abbia usato il termine femminicidio, mentre invece tutti parlano di gelosia come se fosse un movente sufficiente a uccidere e come se ancora non avessimo chiaro che nelle dinamiche di violenza domestica si tratta di un possesso e di un controllo sulla partner che devono essere considerati violenza anche in assenza di aggressione fisica o sessuale. Articoli in cui la strage viene narrata come un evento unico e inspiegabile, caduto quasi dal cielo, dopo che fino a una settimana fa, in occasione della Giornata internazionale contro la violenza sulle donne, è stato ripetuto ovunque fino alla nausea, che il raptus non esiste e che dal 2000 a oggi sono state ammazzate 3.100 donne con movente di genere: numeri che ci hanno fatto capire che non sono eventi unici ma parte di un fenomeno endemico e strutturale, da tenere ben presente quando scriviamo di questa cronaca.

Ma quello che più sconvolgente di questa narrazione è la rivittimizzazione nei confronti sia della memoria di chi è stato massacrato da un marito o da un padre, sia per i familiari che vivono questo dolore. In questi pezzi infatti a un certo punto si perde chi è l’assassino, quasi fosse una sola grande tragedia consumata in maniera inspiegabile e accaduta per un fato avverso, tanta è la smania di trovare un’attenuante per l’uomo che, ricordiamocelo, ha ucciso la moglie e i due figli di 4 e 6 anni. La paura di chiamare le cose con il proprio nome, l’impreparazione dei cronisti e il tabù che probabilmente è ancora oggi il femminicidio in tutte le sue declinazioni, fa parlare dell’assassino come di un uomo depresso, forse con problemi di lavoro, addirittura una “brava persona” e un “padre affettuoso” che mai avrebbe fatto una cosa del genere, dimenticando quasi che invece l’ha fatta: un copione che ancora troppe volte si ripete in casi che sono lapallissiani.

Ma non basta perché sul caso di Paternò c’è chi si è spinto oltre, dando spazio a un’ampia descrizione di un fatto accaduto nell’infanzia dell’assassino, attraverso un’intervista al cugino. Su La Repubblica di Palermo leggiamo: “Gianfranco era un ragazzo d’oro – è la testimonianza di Paolo Bruno, cugino e padrino dell’omicida – Un grande lavoratore ed era molto legato alla famiglia. Lui con me è nato una seconda volta: quando era piccolo gli ho salvato la vita. Trattiene a stento il pianto Paolo Bruno mentre parla del cugino: Aveva quattro o cinque anni, eravamo in spiaggia a Sant’Alessio d’estate e io non mi sentivo molto bene, ero sdraiato. Lui stava giocando quando si è buttato a mare, ma nessuno lo ha visto. All’improvviso l’ho visto galleggiare e mi sono tuffato. Era lui, Gianfranco, travolto dalle onde. L’ho tirato fuori dall’acqua, gli ho fatto la respirazione bocca a bocca e il massaggio cardiaco, nel frattempo sono arrivati i soccorsi. E’ stato un miracolo. E lui, da grande, mi ha scelto come padrino”.

Una descrizione strappalacrime del cugino che addirittura si commuove parlando dell’assassino, forse dimenticando che ha appena ammazzato tre persone tra cui la moglie e i due suoi bambini piccoli. Eppure, se forse possiamo sforzarci di capire il cugino affezionato, ci sfugge completamente il lavoro del giornalista che pur ascoltando le parole del parente poteva scegliere di non pubblicarle, e non solo perché non aggiungono nulla alla notizia ma perché rivittimizzano in maniera grave e intollerabile le vittime, aggiungendo dolore a chi si è visto portare via una figlia e due nipoti, e che ha dovuto leggere dell’assassino dei propri cari come di “un ragazzo d’oro”, senza che ce ne fosse alcun bisogno. E questo non in una conversazione privata ma in un’intervista data in pasto a milioni di lettori e lettrici con dichiarazioni riprese da tutti i giornali che invece su Cinzia Palumbo, che è stata uccisa, non hanno scritto nulla, fatta eccezione per La Sicilia dove viene descritta come “una donna attiva, mamma a tempo pieno, ma sempre disponibile anche ad aiutare i genitori nel ristorante di famiglia”.

Un quadro aggravato dalle parole del sindaco di Paternò, Nino Naso, che ha messo sullo stesso piano le vittime e l’assassino dicendo che “Quattro vite mancano” e che “purtroppo nessuno potrà restituirceli”, senza nessuna dura condanna verso un padre che ha ucciso i figli piccoli lasciandoli stesi nel letto con la mamma morta: un quadro offerto a chi ha trovato i cadaveri e su cui deve aver pensato bene primo di poterlo mettere in atto e di suicidarsi.

Articoli dove il femminicidio viene sbattuto in pagina senza essere nominato ma con foto che ritrae tutti felici e contenti, come se fosse normale che una famiglia felice a un certo punto diventi uno “Shining”. Narrazioni in cui alla fine la realtà si perde in quanto, portando in primo piano elementi di empatia con il femmicida, non si capisce più chi sono le vittime e di chi, tanto che il dolore di chi ha subito scompare, ed emerge invece la compassione per chi quelle sofferenze inumane le ha provocate, creando una specie di connivenza con tutto il fenomeno che riguarda questo racconto e inducendo a pensare che in fondo anche questi uomini hanno le loro ragioni e sono giustificabili nei loro atti di violenza e annientamento. Un pensiero che è complice perché sostiene questa violenza e la nutre.

Dimenticando che fare informazione non è speculare sul dolore ma raccontare i fatti come sono senza cercare di dare più condimento a una notizia già gravissima, questo tipo di cronaca dimentica anche le linee guida che noi stessi ci siamo dati per una corretta narrazione del femminicidio, attraverso il Manifesto di Venezia, presentato proprio l’anno scorso in occasione del 25 novembre da Fnsi, Usigrai, GiuliaGiornaliste e il sindacato giornalisti del Veneto, e che lo stesso Ordine dei giornalisti ha fatto suo. Un decalogo in cui si chiede, tra le altre cose, di “utilizzare il termine specifico femminicidio per i delitti compiuti sulle donne in quanto donne”, e si invita a “un uso corretto e consapevole del linguaggio”, evitando “termini fuorvianti come amore, raptus, follia, gelosia, passione, accostati a crimini dettati dalla volontà di possesso e annientamento”, ed evitando di “suggerire attenuanti e giustificazioni all’omicida, anche involontariamente, motivando la violenza con perdita del lavoro, difficoltà economiche, depressione, tradimento e così via”.


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