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L’uomo in bilico. In memoria di Bernardo Bertolucci

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La prima definizione che si attirò fu quella di “cineasta comunista” ma ben dotato di paracadute borghese. Vero o falso che fosse (Pasolini lo conobbe da assistente volontario, “non” perché figlio di Attilio) ci ha messo una vita, Bernardo Bertolucci, per scrollarsi di dosso il fastidioso pregiudizio: pagato a usura e al prezzo di una tenuta fisica non sempre a lui benigna.  Anzi, con gli anni, invalidante sino alla scomparsa – a 77 anni – nel romano rione della sua giovinezza. Risoltosi, questo addio,  nel più stretto riserbo di pochi amici ed esigui  parenti (specie dopo la morte del fratello più giovane e geniale, Giuseppe  anch’egli regista ‘introverso’ e tutto da indagare).

Altro pregiudizio con cui Bernardo doveva fare i conti, specie dopo la vittoria dell’Oscar (unico italiano, dopo l’oriundo Frank Capra, titolato miglior regista per “L’ultimo imperatore” ), era la ‘diceria’ di non essere più in grado di pensare il cinema se non in termini ad alti budget, epicamente esotici o di ossessive prouderie contigue al fascino discreto della intellighenzia borghese (se ancora esiste).

Smentendo il parere diffuso in almeno in almeno tre casi di piccoli, travagliati  kammerspiel  (sul tema delle contraddizioni fra ‘ipotizzare e attuare’) dei quali “L’Assedio”, “The dreamers”, “Io e te”, non isolabili (a esercizi di stile) dall’ampia filmografia dell’autore  ovvero dall’ “ampia” concettualità dell’immagine che permetteva a Bertolucci di “pensare in cinema”, senza l’additivo di aggettivi minimali o grandiosi, condizionamenti egotistici, avarizie da star. Un estro e una fertilità terragna, sorgiva, scabramente padana, quella che motivava Bertolucci sin dai suoi esordi poetici (Premio Viareggio opera -prima per”In cerca del mistero” del 1962), irrobustiti dal successivo apprendistato a contatto con Sergio Leone per la realizzazione di “C’era una volta il West” e dalle prime esperienze sul campo in occasione de “La teleferica” e “La commare secca”, quasi a ridosso dell’abbrivio pasoliniano ricevuto –nel 1961- sul set di “Accattone”. Man mano che gli interessi culturali di Bertolucci, divenuto nel frattempo primo marito della incandescente  Adriana Asti, andavano fuori orbita dal solito cinema real-periferico. Abbeverandosi alla cinefilia della migliore Hollywood d’annata (Ford, Griffith ma anche Kurosawa) e dell’allora imprescindibile Nouvelle Vague francese, con un particolare ‘debole’ per le disarticolazioni ‘grammaticali’ di montaggio e logica narrativa introdotti da Godard.

Non venendo mai meno in Bertolucci quella sensibilità, cultura, educazione creativa che nidificavano (in lui) tematiche, interrogativi, ossessioni apparentemente contraddittorie, ma figlie procreative del proprio tempo: del suo “Novecento” (titolo filmico e ambito della “sua” epoca) che fu secolo breve e affluente (plurimo) di passioni, utopie, polemiche apparentemente inconciliabili, quasi enciclopediche, spesso pedanti e assolutiste: dal marxismo alla psicanalisi, dallo strutturalismo alla liberazione di Eros (ben oltre le eleganti convenzioni eccentriche ed esternabili). Non a compartimenti stagni, ma in una emulsione di passionalità e geometrico raziocinio che, unitamente alla consapevolezza delle ineludibili ‘differenze di classe’ (nell’”ora del vero sentire”-scriveva Peter Handke), emulsionavano in Bertolucci la costante compresenza, interiore ed espressiva, di autentiche lacerazioni, umane ed artistiche, probabilmente mai destinate a conquistare il suo grigio brandello di “età della pace”. Che infatti mai arrivò, nemmeno quando le sentenze anagrafiche e le cartelle cliniche gli impedirono di “azzardare il cinema” se non dalla postazione sovrana della sua dignitosa, agevolissima sedia a rotelle.

La varietà degli interessi, delle curiosità, delle sue indagini psico-antropologiche (nell’eclissi benigna delle umane “certezze”) rendono inoltre  sterile, vanesio esercizio  cinefilo la ricerca di quel ‘fil rouge’, denominatore comune, ossessioni irrisolte che in tanti cercano vanamente di applicare alla filmografia di Bertolucci. Non dissimile- in questo caso, da quella di Rossellini- il cui unico scopo etico, estetico, poetico era solo “inventare, immaginare, rendere corporali” opere che potessero meglio chiarificare “la condizione umana rispetto all’ambiente, al momento storico” che lo imprigiona. E che non  è dato a nessuno di poter scegliere o ricusare.

Cos’altro annoverare della lezione di Bertolucci (in questa fase di alienazioni maieutiche, cognitive che esigono algoritmi e certificazioni di “verità” 4 a 0?) La compostezza fenomenologica, mai giudicante del dolore, della inanità, dell’umana sconfitta o dell’effimera esultanza. Fra irrisolti nodi edipici, generazionali, relazionali fra individui provvisoriamente ‘appassionati’ in consolidate dinamiche di attrazione e ripulsa, innamoramento e disamore, ebbrezze di eros e sprofondamenti di thanatos (ove è sempre quest’ultimo a porre “fine”, trattasi di “Ultimo tango” o di onirici labirinti dell’anima in cui far disperdere “Il conformista”). Tutto ciò, nella stoica accettazione della perdita, della decadenza fisica, di quell’edipica “Luna” (da cui il film omonimo) che da bambino  appariva una sorta di occhio divino, ancestrale, maternamente protettivo- poi tutto l’inverso, nella quasi banalità delle crudeli, quotidiane smentite. In cui ciascuno è “solo” nel cuor della terra, “trafitto” non da raggi di sole, ma da singulti, velleitari desideri d’ ignota avventura, diserzione di  regole  e convenzioni che accompagnino (come in “Tè nel deserto”) verso esotismi dell’anima che deflagrano in caducità della resistenza fisico-cardiaca.

Ovvero per ‘cuori d’inverno’ che azzardano, sulla propria pelle (e pochi altri malcapitati) il ‘cuore d’inferno’ delle piccole tenebre dell’equivoco relazionale, emozionale, progettuale: per qualcosa che esuli dalla routine del protezionismo sociale, di coppia o di esclusivi clan intellettual-esoterici. La solitudine, quindi, del “Piccolo Buddha” pur decorata di smaglianti colori ambientali ed effimere scie processionali alle sorgenti di un “sapere” cui sarà tossico abbeverarsi con il sollievo (il riposo guerriero) del traguardo raggiunto, della ‘prima notte di quiete’ da assaporare senza l’invadenza del sogno e del ‘depistaggio’ onirico

Uomo in bilico, Bernardo Bertolucci quindi,  ma provvido di qualità, disincanto, attitudine al dialogo non schiamazzato o malevolo: se per tutto ciò intendiamo almeno un residuo di curiosità ‘per la vita’ e non l’ascesi di chi ad essa ‘sostituisce’ – per ripiego- ‘altre’ dimensioni metapsichiche, esoteriche, mitico-fiabesche, persino ‘imperiali’:  designate  a riconsegnare l’individuo (persino “L’ultimo imperatore” della Cina) al sollievo di un anonimato che lo immerga fra la pazza folla che “verrà” o svanirà per sempre. Sempre meglio di come altri farebbero (anelanti redenzione: quale, da cosa?) fra le putride acque del Gange o dello Stige.

Filmografia completa

  • La commare secca (1962)
  • Prima della rivoluzione (1964)
  • Partner (1968)
  • Agonia, episodio di Amore e rabbia (1969)
  • Il conformista (1970)
  • Strategia del ragno (1970)
  • Ultimo tango a Parigi (1972)
  • Novecento (1976)
  • La luna (1979)
  • La tragedia di un uomo ridicolo (1981)
  • L’ultimo imperatore (The Last Emperor) (1987)
  • Il tè nel deserto (The Sheltering Sky) (1990)
  • Piccolo Buddha (Little Buddha) (1993)
  • Io ballo da sola (Stealing Beauty) (1996)
  • L’assedio (Besieged) (1998)
  • The Dreamers – I sognatori (The Dreamers) (2003)
  • Io e te (2012)

 


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